Note di regia di "Kufid"
Con l'esperienza di “Talien”, il mio primo lungometraggio, ho utilizzato la memoria e la testimonianza quarantennale di mio padre per provare a raccontare un'Italia che non esiste più, attraverso la chiave del road movie per parlare in forma intima di un passato familiare che potesse raccontare, ricordare al pubblico italiano come eravamo fino a pochi decenni fa. È un film dove ho parlato poco, mi sono messo in modalità ascolto. Quel film si conclude con mio padre che rimane nel suo Paese di origine ed io che torno nel “mio”. Non ho mai pensato ad un prosecuzione o a qualcosa che somigliasse ad un “sequel”. Il primo intento di “Kufid” è continuare a raccontare le dinamiche umane attraverso la narrazione autobiografica, attraverso però un telaio narrativo che si appoggia sul concetto della trasformazione urbana. In questo film ci sono io, c'è l'Italia (ancora una volta quella del Nord) e c'è il tempo presente. Accade quindi qualcosa di inaspettato e di enorme portata che scombussola i miei piani (e quelli del mondo intero) ma che poi decido di provare ad usare a mio favore. La prima battuta della voce fuori campo di “Kufid” dice: “da piccolo i miei genitori mi hanno insegnato a dire Inch'allah quando metto in programma di fare qualcosa”. Ecco, “Kufid” è questo: la pianificazione di qualcosa di non pianificato. Un ossimoro. Ero proiettato sulla preparazione di un altro film, completamente diverso, con una narrazione molto differente, ma la quarantena mi ha suggerito un'opzione-intuizione registica che mi ha immediatamente convinto. Un progetto confezionato artigianalmente ma professionalmente in casa, bloccato dalla quarantena forzata dove mi cimento in un esperimento registico stimolante da una parte, e pericoloso dall'altra: provare a raccontarmi e provare a raccontare l'esterno dall'interno delle mura di casa mia. Non era nelle mie intenzioni girare un film specifico sulla pandemia o sul Coronavirus, non mi interessava questa operazione: “Kufid” è un film autobiografico girato durante la pandemia e non un film sulla pandemia, è importante chiarire questo snodo. È un film autobiografico quindi, girato a Brescia, città chiave della Lombardia, della Pianura Padana, terra particolare che mi ha cresciuto e che ha accolto i miei genitori 40 anni fa quando emigrarono dal Nord Africa in cerca di fortuna. Siamo in Lombardia, la regione più ricca d'Italia, la regione che più di tutte è stata messa in ginocchio dal virus, una delle più colpite al mondo. Campi agricoli e capannoni. Nebbia e centri commerciali. Cemento e mais. La mia vita, la mia formazione culturale e professionale è stata scandita da questi elementi/simboli fondamentali. Ma siamo anche a Fes, in Marocco, la terra dove sono nato ma dove non sono mai cresciuto. Durante il lockdown italiano di marzo 2020 ho vissuto, letto, ascoltato, soccorso, digiunato e osservato. Mi sono fidato. L'intuizione iniziale è nata dal movimento popolare di fratellanza che sentivo crescere attorno a me: sentivo che la suddetta fratellanza, un sentimento nobile e meraviglioso non poteva essere improvvisato ed essere autentico in un lasso di tempo così stretto. Sentivo che c'era una storpiatura d'identità a livello sociale, l'ennesima. Ho letto questo movimento come una delle più grandi dimostrazioni di fragilità umana e non come un punto di forza scandito dal famoso slogan “torneremo più forti di prima”. Ecco un secondo stimolo su cui ho posto il ragionamento: “...eravamo quindi forti solo fino all'altro ieri?”. Cosa intendiamo esattamente con il termine “forti”? Ed è così che ascoltando, condividendo e leggendo l'oceano di retorica popolare ho cominciato ad abbozzare una scaletta, un canovaccio drammaturgico dove volevo fare una cosa: prendere in esame solo me stesso e attraverso un processo di autoanalisi raccontare le mie convinzioni, le mie certezze e, soprattutto, le mie contraddizioni: io sono il territorio che mi ha cresciuto. Erano tutti concetti che avrei raccontato nel film che avevo in testa prima della pandemia, il “virus” mi ha solo suggerito un altro telaio narrativo per raccontare le medesime dinamiche. Volevo girare un film che parlasse di identità: la mia personale e quella di chi mi ha formato e plasmato i miei primi 37 anni di vita tra Padania e Maghreb. Una doppia identità che ho voluto raccontare usando due lingue precise e distinte: l'arabo, la lingua del mio “istinto” e l'italiano, la lingua del mio “agire”. L'entità “Kufid”, vista come un male assoluto sia da me che dalla collettività, paradossalmente mi si rivela un prezioso partner che mi aiuta a mettere a fuoco concetti e pensieri che già conoscevo e sentivo ma che stavolta trovano un ordine molto più preciso, chiaro e spietato. Volevo usare la retorica dello slogan per criticare la retorica stessa, utilizzando me stesso come cavia da smontare e mettere davanti ad uno specchio senza fare prediche o morali, solo facendo domande. Non cercavo il film politico né il film d'inchiesta: “Kufid” non è un film politico ma è ovvio che nel momento in cui esterno una qualsiasi opinione faccio politica. Un docufilm, un percorso unico, dove da solo mi sono occupato di reparti che abitualmente spettano ad altre maestranze, mi sono cimentato oltre che nella scrittura e recitazione (di me stesso) anche nella fotografia, nel suono, nel montaggio. Ma era un rischio che dovevo correre per confezionare questo film che ho sentito in maniera forte ed urgente sin dalle prime battute.
Elia Moutamid