Note di regia de "Il Giorno e la Notte"
Il Giorno e la Notte è stato realizzato durante il primo Lockdown, mentre teatri e set cinematografici erano fermi, quando sembrava impossibile continuare a coltivare le nostre passioni. Con un gruppo di attori e attrici abbiamo condiviso il desiderio di reagire creativamente alla paura, per mettere sotto osservazione la condizione di isolamento e restrizione. Fin da subito ci siamo resi conto che avevamo già sperimentato la clausura o quantomeno la paura di uscire di casa, per via degli attentati terroristici che si sono susseguiti da Londra a Madrid, da New York a Parigi. Negli ultimi 20 anni abbiamo vissuto collettivamente la paura e il dolore, e se la metafora della guerra ha un senso, allora andrebbe estesa a tutto il primo ventennio del secolo. Da qui l’esigenza di farci del bene, di dare “una carezza” a tutte e tutti coloro che erano bloccati in casa senza poter fare nulla, a partire dalle lavoratrici e lavoratori del cinema, per dare un senso a ciò che stavamo vivendo.
Per me le attrici e gli attori sono il fulcro di ogni forma di rappresentazione, sono il vero motivo per cui penso valga la pena di fare cinema, è in loro che trovo il senso di ciò che vedo sullo schermo, e sempre meno mi interesso alla tecnologia e ai suoi magnifici orizzonti. È stato quindi del tutto naturale mettermi in contatto con alcuni interpreti che stimo e con i quali ho un rapporto che va al di là del lavoro, e proporre loro di sperimentare una forma di cinema che nessuno di noi aveva ancora praticato, realizzando un set “virtuale” a “distanza”, usando la stessa tecnologia che ci stava imprigionando a casa, mettendola al servizio degli attori, perché ruotasse attorno a loro, ai loro desideri espressivi, alle loro pulsioni intimamente umane e artistiche. Alle nostre pulsioni, prendendoci anche il rischio di fallire, anzi abbracciandolo, facendolo nostro complice. Personalmente non sono riuscito ad accettare la “sospensione della vita” che abbiamo vissuto, a distanza di un anno lo ammetto. Ho compreso e adottato il distanziamento sanitario, per rispetto dei morti dei malati e dei nostri medici e infermieri, ma ho rifiutato la retorica del “ne usciremo migliori”, non vi ho mai creduto. Non ho potuto poi accettare l’idea stessa di distanziamento sociale, trovo sia una definizione antiumana che presuppone e porta con sé il rischio che si smetta di desiderare la vita in comune e persino che si smetta di creare. Ma come si fa a dar vita ad un’opera collettiva essendo distanziati? Bisognava trovare una soluzione per una equazione impossibile. In quei giorni le nostre città erano deserte, somigliavano a dei cimiteri. Quel “fuori” spaventava, tendeva a diventare l’unico spettacolo possibile. Ci guardavamo attorno sgomenti, alla ricerca di un senso per tutto ciò che stava accadendo, era necessario mettersi in gioco, ci siamo detti: noi il cinema lo facciamo lo stesso e non come gesto di eroismo o di arroganza ma di disperazione. La disperazione è profondamente umana, meglio disperati che “scomparsi” gli uni agli altri. Abbiamo così accettato di mettere in pratica la nostra esperienza di musici, saltimbanchi, capocomici e buffoni, sfiorando il teatro della crudeltà, perché le coppie di attori anche nella vita hanno rischiato il loro equilibrio e la loro “pace interiore”. Ciascun attore e attrice doveva andare oltre i propri limiti, ciascuno doveva seguire i propri impulsi creativi. Ecco che ciascuno e ciascuna coppia di attori ha costruito un’esperienza unica, una atmosfera propria, un “genere” differente, personale. Sapevamo che sarebbe stato difficile tenere tutte queste cose unite, ma la regia cos’è se non “una funzione”? Una attitudine ad unire, dare uno scopo ad un ensamble. Quindi anche io ho dovuto mettermi in gioco, non potevo “dirigere” il set e non potevo guardare gli attori negli occhi. Tutte e tutti noi abbiamo dovuto “connetterci” sentimentalmente, fidarsi gli uni delle altre. Una piccola sfida: noi facciamo cinema, comunque vada.
Daniele Vicari