Note di regia di "A Chiara"
“A Chiara” è il terzo capitolo di una trilogia iniziata con “Mediterranea” nel 2015 e proseguita con “A Ciambra” nel 2017. Sono arrivato a Gioia Tauro nel 2010. Due migranti africani erano appena stati aggrediti e quell'episodio ha segnato l'inizio di violenti scontri che ho filmato in “A Chjàna”, il cortometraggio che ho realizzato prima di “Mediterranea”. Nel frattempo, mi sono trasferito in quella città ed è lì che ho incontrato Pio e la comunità rom che ho raccontato, più tardi, in “A Ciambra”. All'inizio non avevo affatto in mente l'idea di fare una trilogia, volevo solo filmare gli scontri razziali, ma ben presto ho capito che volevo realizzare tre film su tre aspetti di questa città. Il primo era la comunità africana dei migranti, il secondo era la comunità rom un tempo nomade, ma divenuta completamente sedentaria e insediata in un quartiere particolare della città. Infine, la “malavita”, le persone coinvolte nell'economia sotterranea creata dalla mafia.
Gioia Tauro è un microcosmo che fa parte di un più ampio contesto sociale ed economico, il mondo globalizzato. Eppure, io sono convinto che per esprimere un concetto universale sia necessario entrare nel dettaglio, essere intimi e locali.
Questa città ha qualcosa di molto particolare nel modo in cui questi fenomeni si intersecano.
Non ho mai voluto fare un grande film che unisse questi tre aspetti della vita a Gioia Tauro: i migranti, i rom e la mafia. Volevo parlare di individui, non di argomenti generici. Ho voluto però marcare l'esistenza di una connessione più ampia facendo riapparire alcuni personaggi, anche se brevemente, in ogni film. Per me era ovvio che i personaggi dei miei primi film - Ayiva di “Mediterranea”, Pio e sua cugina Patatina di “A Ciambra” - dovessero apparire anche in questo nuovo film, “A Chiara”.
Tutto ciò che riguarda la famiglia di Chiara è reale, rispecchia da vicino i loro rapporti, anche se le vicende che vivono nel film sono immaginarie. Per questo non è stato difficile farli recitare, perché sono scene che hanno già vissuto. Gli attori non hanno mai letto la sceneggiatura, ovviamente Claudio e Antonio avevano un'idea della struttura e del soggetto del film ma nessuno conosceva la storia in dettaglio. Claudio sapeva per esempio che c'era un bunker sotto la villa ma a Swamy non lo abbiamo mai detto. Durante le riprese, abbiamo continuato a ripeterle: “Guarda quel muro, guardalo bene, nasconde qualcosa che va trovato”. E alla fine ha trovato il bunker da sola.
Credo che raccontare questa storia attraverso il punto di vista di una ragazza mi abbia permesso di sfuggire ai cliché abituali e di focalizzarmi invece su una famiglia. Non una famiglia mafiosa. “A Chiara” è un film sui rapporti tra padre-figlia, e su come le persone imparano a trovare la propria bussola morale e a tracciarsi un cammino per conquistare la propria libertà.
Jonas Carpignano