LOCARNO 74 - "Brotherhood è un racconto di formazione"
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Brotherhood" di Francesco Montagner è stato selezionato in Cineasti del Presente al
Festival di Locarno 2021. La storia di tre fratelli bosniaci alle prese con un padre autoritario, accusato di propaganda terroristica, e con la necessità di proseguire l'attività pastorale di famiglia, senza contare i dubbi su cosa diventare da grandi.
Come sei riuscito a entrare in confidenza con i tuoi protagonisti?
"Ammetto che non è stato difficile, sono adolescenti molto curiosi del mondo e della vita, noi tre della troupe - tutti sui 25-30 anni - sembravamo a loro quasi fratelli più grandi, eravamo strani, con lingua e cultura diversi da loro.
Col padre è stato molto più complicato, c'è stato un braccio di ferro, sono serviti diplomazia e rispetto, abbiamo fatto tutto in punta di piedi. Abbiamo sempre voluto fare un film intimo: ho spiegato al padre la nostra idea, come avremmo lavorato sul montaggio... se per i ragazzi era un gioco, anche per stare insieme e ammazzare la noia (come pastori il tempo non passa mai, specie se sei adolescente!), per lui era diverso.
Con loro il rapporto è cresciuto negli anni, il fattore tempo è stato fondamentale, così come la nostra perseveranza. Abbiamo provato a essere oggettivi il più possibile, il padre ci ha lasciato liberi, nei limiti, ma ha comunque messo numerosi paletti agli argomenti da trattare".
Come sei venuto a conoscenza della loro storia?
"Nel 2015 ho visto un servizio tv, in un programma di Michele Santoro, su un italo-bosniaco del nord est che si era radicalizzato. Quel servizio cercava di tracciare in Bosnia i contatti che poteva avere avuto, e una parte era girata a casa loro: si trattava di brevissime immagini, di un minuto e mezzo circa, ma sono rimasto colpito dalla complessità del loro mondo.
Conosco un po' i Balcani, da 7 anni vivo a Praga e lì ho conosciuto tanti bosniaci, croati, serbi... non capivo perché esistessero queste comunità radicali, mi chiedevo come quei ragazzi le vivessero, quale influenza potevano avere su di loro. Il progetto è nato così: nel 2015 un primo incontro con loro, abbiamo iniziato il rapporto in modo lento, sono poi iniziate le riprese nel 2016, una non-stop in cui andavo in Bosnia ogni 2-3 mesi per costruire questo romanzo di formazione dall'adolescenza all'età adulta".
Quali sono le ispirazioni di "Brotherhood"?
"Il titolo, intanto: è una parola che significa fratellanza, ma non solo: significa anche il sentimento di essere fratelli. Come riferimenti abbiamo avuto soprattutto il cinema dei fratelli Dardenne, la loro asciuttezza di linguaggio era perfetta per il nostro racconto dei microdrammi dell'adolescenza".
Quali sono le caratteristiche di questo tuo lavoro?
"E' un lavoro misto, ma è decisamente un documentario: tutto ciò che si vede è veritiero, per le emozioni e gli accadimenti. Ci sono scene però in cui abbiamo lavorato di più, insieme ai tre fratelli, per esprimere al meglio i loro sentimenti, perché la natura e il paesaggio funzionassero come elemento drammaturgico. Ma sono soprattutto le scene puramente documentarie quelle per me più forti: eravamo semplicemente presenti nel momento giusto.
Volevamo una fotografia asciutta ma molto curata, affinché lo spettatore superasse una certa sfiducia dovuta alla mancata empatia per i protagonisti, io volevo che il pubblico fosse il più vicino possibile a loro, alla bellezza di quei momenti in cui loro stanno cercando di diventare adulti".
Cosa hanno detto del film, lo hanno visto?
"I ragazzi sì, hanno visto il film, anche se non sono andato ancora là: lo hanno visto sui loro telefoni, mi hanno mandato commenti molto dolci, anche un po' naive. Mi hanno chiesto i perché di alcune scelte di montaggio, come adolescenti che hanno difficoltà a rivedere le proprie immagini, vedersi fragili in alcuni momenti non gli è piaciuto, non si vedevano rappresentati come 'uomini'. Ma alla fine hanno accettato il lavoro: non vedono l'ora di poter accompagnare di persona qualche proiezione e incontrare il pubblico".
Prima di questo importante progetto avevi fatto un altro documentario, "Animata resistenza". E ora?
"E' stato un progetto molto difficile per me a livello psicologico, non sai mai dove ti porterà ma ci dedichi anni, io però sentivo che era importante raccontarla, che apriva una riflessione sulle nuove generazioni. Il padre stesso è una vittima dell'Europa, a vent'anni ha dovuto combattere nella guerra della ex-Jugoslavia: le tracce di una guerra influenzano più di una generazione?
La mia maturità è cresciuta nel tempo, esponendomi a questa realtà complessa con tantissime sfaccettature. Sono andato 7 anni fa a Praga per frequentare la FAMU, la scuola che hanno frequentato anche Milos Forman ed Emir Kusturica, tra i tanti. Quella struttura è un punto di riferimento per il mondo slavo, sono cresciuto molto come autore in termini di linguaggio e non solo, ho molto ragionato sui temi e sul significato di ciò che vogliamo rappresentare con le immagini, più che sull'immagine in sé. Ora insegno in quella scuola.
Per il futuro credo che rimarrò legato al documentario, ti permette libertà e creatività: la regia di un doc è un percorso di formazione. Ora sto pensando a una nuova idea, ancora in stato embrionale, sempre su tematiche di tipo politico ma vorrei spostarmi dal mondo contadino, ragionando sulle città. Staremo a vedere".
06/08/2021, 11:49
Carlo Griseri