Note di regia di "Corpo a Corpo"
La prima volta che ho incontrato Veronica, mentre assistevo a uno dei suoi allenamenti, si è fermata con il fiato corto e il viso arrossato dalla fatica e mi ha detto “Dimmi che non racconteremo solo di tempi, sudore e qualificazioni. E promettimi che non staremo ancora a rivangare una malattia che non è stato che un attimo in tutti gli anni della mia vita”. Dopo queste parole ero sicura, volevo fare un documentario su di lei, volevo raccontare la piccola Yoko, che a soli 25 anni (22 quando ci siamo incontrate la prima volta), ha molto da dire a tantissime donne, anche a quelle che non hanno mai messo piede in una palestra. La meningite, la terapia intensiva, l'essersi dovuta confrontare con l'idea della morte non mi interessavano. Io volevo scoprire, e far scoprire a chi avrebbe visto il film, chi è Veronica oggi, andando oltre la narrazione eroica della sopravvissuta, andando oltre l'immaginario dell'atleta che con il sudore, la fatica e l'impegno arriva al suo traguardo. Siamo in un momento storico in cui la narrazione del femminile sta vivendo una forte rivincita. Ad un certo punto ci siamo accorti che metà della popolazione è stata cancellata dalla storia e abbiamo preso a raccontare le storie delle donne, soprattutto delle donne forti, quelle che hanno avuto il coraggio di ribellarsi lasciando un'impronta nel mondo. Veronica è sicuramente una di queste, ma io avevo bisogno di fare un passo avanti nello sguardo con cui stavo scrutando la sua vita e mi approcciavo a raccontarla. La sua rivoluzione non è nelle medaglie, nelle ore estenuanti di allenamento, nella fatica e nel dolore, la sua rivoluzione è proprio nella sua normalità. Ed era questa normalità che mi affascinava, era proprio questa che volevo raccontare. Veronica ha vissuto un anno preolimpico, diventati due anni pre‐olimpici, che avrebbero messo alla prova la tenuta mentale e fisica di ciascuno di noi. Lei, invece, un passo dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, è andata avanti per la sua strada, conoscendo di volta in volta il proprio limite, il nuovo confine e andando oltre. La sua ostinata positività era disarmante, ma lei è così: guarda dritto negli occhi l’ostacolo e prosegue, quasi come se facesse finta di non averlo visto. Questo suo approccio alla vita è diventato il passo del film. Non ho le dita? Posso suonare comunque il piano. La mia pelle non è perfetta? Guardatemi! E guardatemi nuda! A un anno dalle Olimpiadi i medici mi dicono che non posso più correre? Nove anni fa mi avevano detto che non avrei mai più camminato, troverò un modo. E nel frattempo? Nel frattempo questa ragazza normale si allena, prova a fare degli esami per i quali non ha studiato, va a ballare in discoteca anche quando non dovrebbe, si arena nell’immobilità di una pandemia che ha messo alla prova anche la sua motivazione. Corpo a Corpo è questo. È il ritratto di un'atleta e di una giovane donna. Le cicatrici, le amputazioni, le protesi non sono un limite, ma l'estensione di una vita. Vedere un corpo come il suo che riesce ad allenarsi, a sopportare la fatica, a raggiungere giorno dopo giorno un obiettivo sempre più lontano è normale e allo stesso strabiliante quanto vedere una ragazza di 25 anni che esibisce il suo corpo imperfetto senza alcuna paura. Oggi si parla molto di body confidence, ma la verità è che viviamo nell'epoca di Instagram in cui quelle stesse ragazzine che mettono like alle smagliature fieramente esibite da un'influencer, prima di pubblicare una loro foto, provano tutti i filtri a disposizione per nascondere le imperfezioni. L'immaginario sul corpo delle donne va in una direzione precisa da secoli. Mentre l'idea di bellezza si evolve con i tempi e le culture, l'adesione a canoni precisi che definiscono il piacere (altrui) è costante. La vita di Veronica ci costringe a farci una domanda basilare: cos'è la normalità? Il confine sta proprio lì: finché avremo degli standard con cui confrontarci ci sarà sempre qualcosa che ci appare diverso nel bene e nel male. L'eccezionale, anche nella sua accezione positiva è qualcosa che esce fuori la regola. Per cui una persona che non cammina ha un minus perché il nostro mondo è a misura di normodotati. Una donna magra è considerata bella nel mondo occidentale, mentre in altre culture non lo è affatto. Con Veronica andiamo oltre tutto questo. E quindi parlare di accettazione del corpo non vale più. Un corpo va solo vissuto. L'eccezionalità normale di questa ragazza, parla a tutte e a tutti noi normali. Corpo a Corpo esprime proprio questa dualità, un confronto inesistente con un paradigma solo evocato. Lavorare a un documentario biografico ti mette in continua discussione. Da regista e da donna ho inevitabilmente un punto di vista preciso che però si confronta con la materia che ho deciso di raccontare, la quale non è solo un bacino narrativo, è una vita, una ragazza, un’esperienza ancora in trasformazione. L’universo femminile e la questione di genere sono parte fondante della mia ricerca personale. Questo è il motivo per cui ho chiesto a Veronica di aprirmi la sua vita, ma il film non poteva compiersi solo a partire da questo. Così, durante le riprese di Corpo a Corpo, che sono state anche il mio personale cammino nella vita di Veronica, passo dopo passo mi sono sempre più messa in ascolto sulla Yoko‐frequenza e di conseguenza è avvenuta una magia: anche Veronica si è sintonizzata sulla mia. Il documentario è un dialogo intimo tra chi racconta e chi si fa raccontare, le parole si trovano insieme, le immagini si compiono in questo spazio condiviso, in questa connessione prende vita un film che scorre sullo schermo.
Maria Iovine