Note di regia di "Tutankhamon. L'Ultima Mostra"
Questo film nasce da un confronto maturato lungo anni di collaborazione con Sandro Vannini il quale ha condiviso con me l’esigenza di fissare in un racconto “esteso” il suo lavoro fotografico ormai ventennale attorno alle antichità egiziane e, in particolare, alla figura di Tutankhamon. Ma come dire qualcosa di nuovo sul faraone più raccontato nella storia dei media? L’occasione è arrivata nel 2017, quando la società IMG ha commissionato a Vannini la realizzazione del catalogo fotografico per una mostra sul tesoro del “Golden boy”. Si tratta della più grande mai realizzata: 150 oggetti e un viaggio di sette anni attorno al mondo per celebrare il centenario della scoperta. Questo ha significato poter fotografare ancora una volta quegli oggetti, “metterli in posa” a proprio piacimento, come forse non era mai accaduto, ma anche trovarsi nella posizione unica di raccontare dall’interno come viene spostato un tesoro così fragile e prezioso.
TUTANKHAMON. L’ULTIMA MOSTRA ruota attorno a tre assi narrativi che si intrecciano in un dialogo continuo di rimandi tra il passato remoto in cui visse il faraone, quello più recente della scoperta di Carter del 1922 e il presente delle mostre e degli studi dedicati all’Antico Egitto. Abbiamo voluto aprire il film mostrando in presa diretta le operazioni di preparazione al viaggio degli oggetti del tesoro di Tutankhamon per la sua ultima tournée internazionale, organizzata per la mostra “KING TUT. Treasures of the Golden Pharaoh”. Abbiamo così esplorato le sale del chiassoso Museo di Tahrir del Cairo e i dipartimenti asettici dell’area restauro del nuovo Grand Egyptian Museum, ancora parzialmente in costruzione e chiuso al pubblico. Abbiamo raccontato i passaggi più impegnativi e poco noti del backstage della mostra, come lo spostamento dell’imponente Statua del Guardiano del Re in legno dipinto e dorato (mai più mossa da quando Carter l’aveva inviata da Luxor al Cairo alla fine degli anni 20’) e quello di una statua colossale, un macigno di quasi tre tonnellate movimentato grazie al sapiente intervento di esperti operai del Museo Egizio. Abbiamo poi seguito l’allestimento nelle location di Los Angeles, Parigi e Londra, rivedendo quegli stessi oggetti in una veste nuova: al centro di sale espositive pensate per esaltarne ogni dettaglio, celebrando una potenza evocativa e artistica capace di attraversare intatta i millenni.
Come in una macchina del tempo, abbiamo poi fatto un salto indietro a 100 anni fa, raccontando – grazie a preziosi materiali d’archivio, interviste agli esperti e letture drammatizzate dei diari di Carter – la storia dell’epocale scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1922. Abbiamo così potuto indagare il fenomeno culturale “Tutankhamon”, che rese Carter e il suo finanziatore, Lord Carnarvon, due star mediatiche tanto da far nascere nell’Europa degli anni ’20 un’ondata inarrestabile di Tutmania. Nel 1924, mentre Billy Jones & Ernest Hare suonavano il primo pezzo ballabile di successo intitolato “Old King Tut”, alla British Empire Exhibition di Wembley venne aperta al pubblico una ricostruzione della tomba di Tutankhamon capace di attirare folle oceaniche di visitatori. Con la morte di Lord Carnarvon, nel 1923, si era intanto diffusa la leggenda della maledizione di Tutankhamon, che si è trascinata fino ai giorni nostri e che forse fu tra le ragioni del successo della mostra itinerante degli anni ’70, con code chilometriche che si snodavano attorno al British Museum di Londra e al Metropolitan di New York. Grazie a Tutankhamon nasceva così una delle prime mostre blockbuster della storia dell’arte.
Il racconto storico ci permetterà di arrivare anche all’epoca contemporanea quando, a partire dal 2005, il celebre archeologo Zahi Hawass, Ministro delle Antichità Egizie fino al 2011, trasformò il Golden Boy in un ambasciatore d’Egitto nel mondo, proprio in un momento in cui il paese era desideroso di riscattarsi da decenni di attentati che ne avevano minato la grande industria turistica e culturale. Fu in quegli anni che per la prima volta venne fatta una TAC alla mummia del faraone per indagarne le cause della morte: proprio alle scansioni di quelle TAC abbiamo avuto accesso esclusivo in occasione del docu-film.
Il racconto giungerà poi agli anni della rivoluzione del 2011 e anche al gruppo di saccheggiatori che penetrò nel Museo Egizio di piazza Tahrir in cerca di oro, rubando e distruggendo alcuni oggetti del tesoro di Tutankhamon. Sarà sempre Zahi Hawass a raccontare questi passaggi, sostenuto da materiali d’archivio e materiali inediti di quei giorni. Mentre saranno le fotografie ad altissima risoluzione di Sandro Vannini, fotografo tra i più prolifici del tesoro di Tutankhamon, a raccontare come gli oggetti danneggiati abbiano recuperato le loro fattezze originarie grazie al sapiente lavoro dei restauratori: il lavoro di Vannini è basato principalmente su tecnologie digitali sofisticate e d'avanguardia che, applicate alla ricostruzione virtuale, alla fotografia e alle riprese video, rappresentano la nuova frontiera della narrazione e della descrizione dei Patrimoni Artistici e Culturali.
Attraverso le fotografie di Vannini si snoda anche il terzo asse narrativo del film: quello che ricostruirà stralci della vita e del rituale funebre del faraone della XVIII dinastia. Quasi attraverso gli occhi di Howard Carter ci troveremo di fronte a un tesoro di 5398 oggetti ammucchiati dentro una tomba angusta e saremo chiamati a interpretarne il senso. Una voce narrante ci aiuterà a immergerci in quelle atmosfere e diventare testimoni della scoperta di quella straordinaria sepoltura. A questa voce se ne alterneranno altre, capaci di rievocare le antiche formule inscritte sugli oggetti e alcuni stralci del diario di Carter.
Dentro la Tomba di Tutankhamon: il mondo terreno, il mondo ultraterreno
Per gli antichi Egizi la morte non rappresentava la fine di tutto, ma costituiva il momento di passaggio verso un’altra forma di vita. Perché il corpo del defunto potesse continuare a vivere nell'aldilà, era necessario che fosse preservato integro attraverso la mummificazione. La mummia di Tutankhamon era conservata nel suo celebre sarcofago, custodito in santuari di legno dorato, arricchiti dalle incisioni della mappa del viaggio che lo attendeva e della mappa dei ricordi della sua vita terrena. Sulle porte del secondo santuario in legno laminato d’oro furono impresse le scene che raccontavano questo ciclico peregrinare: Iside, dea della maternità e della magia, presenta Tutankhamon ad Osiride, dio dell’Oltretomba. In maniera speculare, Maat, dea dell’Ordine, conduce Tutankhamon dal dio solare, il raggiante Ra Orakhti. Tra la luce e il buio, in moto ciclico e perpetuo, ricalcando il moto della terra che produce il giorno e la notte, c’è lui, il re, testimone e artefice del miracolo della luce del sole, che a ogni alba risorge sulla sabbia del deserto, sui campi, sul fiume Nilo. Ancor oggi le pitture murarie della tomba del faraone ci raccontano il corteo funebre che accompagnò Tutankhamon al suo sepolcro, mentre gli ornamenti posti sul corpo ci parlano della sua metamorfosi da creatura organica a creatura divina e dorata, perché è d’oro, il metallo eterno, la carne degli dei. Sulle dita di mani e piedi sono posti ditali d’oro, sul suo corpo ricadono centinaia di gioielli e amuleti protettivi. Il suo volto, coperto da una maschera d’oro di dieci chili, diventa il volto di Osiride, dio dell’Oltretomba. E così ogni volto, forgiato sui sarcofagi che lo racchiudono è sempre quello del dio dei morti, raffigurato con la tipica barba raccolta in una treccia.
Ma com’era l’Egitto, quello terreno, da cui proveniva il re? Ce lo raccontano i contenitori per il cibo, accatastati in grandi quantità sotto uno dei suoi letti. “Aprendo” uno di questi contenitori entriamo in un racconto per immagini che ci porta, con le pitture murarie, ad assaggiare il pane di cui si nutriva il popolo, la birra che lo confortava dopo la fatica nei campi, il vino che scorreva a fiumi nei banchetti di nobili e semidei, quale era il faraone. Quel bambino, figlio di un re eretico, Akhenaton, si sarebbe fatto carico del fardello della corona a soli nove anni. Ma cosa sappiamo davvero di quel ragazzino? Quasi nulla. Tuttavia, dei frammenti della sua storia vanno ricercati sul suo corpo. Era zoppo al piede sinistro. Lo dice il suo scheletro scandagliato dalla TAC e lo dice anche la sua collezione di bastoni, ammucchiati a centinaia nella sua tomba. Era probabilmente anche molto devoto ad Ankhesenamon, la sua sposa, raffigurata con tratti delicati mentre lo accompagna in diversi momenti della vita quotidiana.
Poche altre sono le informazioni che lo riguardano. Gli storici sono concordi nel dire che, tutto sommato, fu un re effimero, la cui tomba aveva avuto la fortuna di essere dimenticata in mezzo a tombe di faraoni ben più noti. Questo la risparmiò dal saccheggio e assicurò, forse a lui solo, l’eternità.
Secondo gli egizi, l’eternità di un uomo finirà soltanto quando non ci sarà più nessuno al mondo a pronunciare il suo nome. Ma la giostra dei media e delle mostre internazionali, così come dei documentari e dei libri fotografici, continua a vorticare, luccicante e piena di fascino, attorno al nome e al volto del faraone bambino. Quella maschera d’oro, quel nome, rimangono e rimarranno ben incisi e vivi nella memoria dell’umanità. E continueranno ad essere pronunciati ad alta voce.
Ernesto Pagano