Note di regia de "La Grande Opera"
Io avevo già raccontato il conflitto tra multinazionali e territorio in Vento di soave (2017), vincitore dell’Hot Docs di Toronto, ma in quel film avevo osservato soprattutto le conseguenze socio-sanitarie di un modello di sviluppo industriale; in questo caso, avevo l’opportunità di raccontare il conflitto sociale che spesso si innesca nel momento dell’arrivo di una grande opera in un territorio. Quando ho potuto avviare la ricerca, però, l’apice del conflitto materiale era già stato raggiunto nella primavera del 2017, con l’espianto dei primi ulivi, le cariche della polizia, gli arresti e i fogli di via. Da lì in poi il movimento aveva perso progressivamente (e comprensibilmente) forza e partecipanti. Con Francesco Lefons ci siamo quindi chiesti se avesse davvero senso iniziare un documentario quando l’opera era già avviata e il conflitto materiale quasi concluso. Abbiamo capito però che quel conflitto materiale, ormai concluso e non più filmabile, poteva essere raccontato in una unica grande sequenza di archivio, come un ricordo nel cuore del film e del conflitto interiore della protagonista: una nostalgia per un passato di passioni intense ormai perdute. In questo modo quel conflitto materiale poteva essere interamente omesso e presupposto all’inizio del film e trasformato, in modo ancor più interessante e meno scontato, in un conflitto simbolico per la costruzione della verità, ma pur sempre un conflitto tra Davide e Golia, per la smisurata sproporzione delle forze in campo. Uno dei principali claim della campagna di comunicazione di Tap era Chi conosce la storia non crede alle favole. Per questo abbiamo anche scelto di seguire una mamma No Tap che scrive e racconta ai propri figli delle favole, proprio per enfatizzare questo contrasto. In realtà, però, eravamo davanti a un conflitto in cui, non solo Tap, ma ognuno dei due attori in causa attribuiva a sé il racconto della storia e agli altri il racconto di una favola. Dov’era la verità? Uno scienziato del secolo scorso diceva che la verità è l’invenzione di un bugiardo. Questa era l’idea che ci doveva guidare, ovviamente non nel senso di pensare che fossero tutti bugiardi, ma nel senso di mostrare come ognuno costruisca e produca quella che chiama verità, oppure, a seconda del posizionamento, informazione o controinformazione. Questa idea comportava necessariamente collocarsi in modo equidistante tra le parti in causa. E questa equidistanza, almeno da alcuni No Tap, è stata osservata con sospetto. Perché molti di loro ritenevano (e ritengono) necessario sapere immediatamente chi si ha di fronte, dire da subito da che parte si vuole stare, dichiarare il proprio collocamento ideologico e la propria opinione ancor prima di iniziare a guardare. E io invece penso che pre-posizionarsi – tanto più in una osservazione sociologica o filmica - sia la via più breve per non capire nulla, per confermare preconcetti e produrre stereotipi. Io da spettatore non vorrei conferme delle mie idee, ma domande, contraddizioni, perturbamenti. Se il cinema fosse pre-posizionato non aspirerebbe ad essere arte, ma pura propaganda. Un regista, d’altra parte, non ha il compito di stabilire chi ha torto o chi ha ragione, perché non è un giornalista d’inchiesta né un giudice: il suo compito è mettersi in una posizione scomoda e di confine, per vedere di qua e di là, per vedere con gli occhi dell’altro: solo così il cinema allarga gli orizzonti e non li restringe, solo così adotta una etica dello sguardo che è anche estetica della rappresentazione: un cinema che è politico nel metodo ma assolutamente non nel fine. E questo è per me il principio del poter essere rivoluzionari: partire da un’etica politica che non è negazione dell’altro. Il dissenso, anche visuale, non parte da una dichiarazione del sé ma da un tentativo di comprendere l’altro, a partire dal mettersi al suo posto, dal capire quanto i ruoli sociali producano il nostro modo di vedere il mondo. Questo approccio (inizialmente avalutativo) – che è anche il presupposto di ogni indagine sociologica - è stato utile per guadagnarsi la fiducia di Tap e la possibilità di filmare il loro lavoro, ma paradossalmente ha reso alcuni dei No Tap diffidenti e restii a farsi filmare. Ma noi siamo andati avanti sulla nostra strada, convinti che essere equidistanti non significa attribuire a tutte le narrazioni lo stesso valore e la stessa dignità: la verità per essere molteplice non è perciò doppia, sosteneva Baudrillard. L’importante è non mortificarla semplificandola a una verità binaria, ma mostrarne la complessità. E le immagini sono il regno della complessità. Per questo il film racconta il conflitto della verità anche come un conflitto visivo tra la grande macchina industriale e la natura. Un conflitto in cui è sempre lo spettatore che attribuisce senso a partire dal proprio sguardo: si tratta di grandioso ingegno umano e controllo dell’uomo sulla natura o si tratta di miopia umana e di violenza dell’uomo sulla natura? L’arte, e le arti figurative in particolare, non devono e non possono convincere nessuno. E questo è valido ancor più in un’epoca in cui tutti pensano di avere la migliore prospettiva sul mondo. Da regista non sono e non voglio essere il produttore unico del senso, né tantomeno il dittatore del significato: uno vede in un film quello che vuole (e può) vedere, non c’è un unico senso, il senso cambia a seconda di chi osserva e delle sue strutture culturali, è così nella vita ed è così nel cinema. E poi io penso che la realtà sia già così conflittuale, surreale e grottesca, e ingiusta, che non ha bisogno di nessun paladino della verità vera: non c’è bisogno di alcun commento, di alcuna ideologia, e ognuno – almeno al cinema - deve essere lasciato libero di guardare e produrre senso come crede, anche se il suo senso per me può essere non-senso. Accanto al conflitto narrativo per la costruzione della verità e a quello visivo tra uomo e natura, il film si focalizza sulla parabola discendente del movimento. Il fatto di aver avviato il progetto a conflitto materiale già terminato, ci ha dato paradossalmente il vantaggio di portarci a concentrare sulle difficoltà del movimento: la nostra storia, infatti, inizia con l’avvio dei primi lavori sul cantiere e del processo contro i No Tap. Il nostro film non poteva e non voleva essere un film sulla Tap e sul movimento No Tap, anche perché sarebbe impossibile raccontarli in modo esaustivo in un tempo limitato; al contrario, il nostro film poteva e doveva raccontare, attraverso il movimento No Tap, l’epilogo simbolico dei movimenti di protesta, la progressiva riduzione degli spazi del dissenso nella società contemporanea. Quindi assolutamente non un film di lotta, ma un film sulle lotte. E questo era possibile a partire dal racconto dei problemi legali dei manifestanti, del loro essere stati illusi e abbandonati dalla politica, derisi da molti giornali. Era fondamentale raccontare l’evidente addomesticamento mediatico e giudiziario del movimento e l’isolamento politico, senza scadere in una visione edulcorata della protesta, ma mostrandone – al contrario - le difficoltà e le contraddizioni. Così abbiamo problematizzato tanto la grande opera quanto il movimento di protesta, senza pregiudizi né sconti ideologici. Ciò che ci interessava del gasdotto e della lotta No Tap, non era dimostrare chi avesse ragione o se la lotta fosse giusta o meno, ma universalizzarla e mostrare come sia sempre più difficile manifestare con successo il proprio dissenso, soprattutto all’attuale modello di sviluppo. Le ragioni di questa impossibilità vanno cercate non solo all’esterno dei movimenti, ma anche all’interno, nell’incapacità di essere inclusivi e di rafforzare le energie migliori, di moltiplicarle. Allo stesso modo, la media manager di Tap è raccontata non come un monolite al servizio di una multinazionale, ma come una donna appassionata del suo lavoro e davvero convinta di essere partecipe della costruzione di una grande opera, a suo dire costruita con una grande attenzione e cura per il territorio. E tuttavia la media manager, dopo aver provato a destabilizzare comunicativamente le prospettive della protesta, finisce anche lei per essere destabilizzata dalla sua stessa fiducia per un modello di sviluppo che, una volta raggiunto l’obiettivo, si libera delle persone che hanno contribuito al raggiungimento del traguardo. E così, mentre sta per gustare il successo della costruzione della sua narrazione della verità, finisce anche lei per essere vittima di un modello di sviluppo che va avanti al di là e a prescindere dalle persone: che va avanti sulle persone. Così, si può avere o meno ragione, ma ciò che resta e conta, drammaticamente, è che la grande opera ha avuto diritto di esistere e la protesta no. Questo è il tema e il focus del film. E al di là di ogni speculazione sulla verità, La grande opera si chiede, e chiede, perché questo accada e se davanti a qualcosa che è stato dichiarato grande, e quindi necessario, è possibile ancora manifestare la propria contrarietà, dire e provare a desiderare un altro mondo possibile. Le fasi produttive del film sono sempre state circolari e simultanee, perché la scrittura del film è avvenuta non solo durante la sceneggiatura e le riprese, ma anche durante il montaggio di Mattia Soranzo. È con lui che i tre focus del film (conflitto narrativo, conflitto visivo uomo/natura e conflitto/epilogo del movimento) hanno trovato una loro dimensione precisa e un loro equilibrio, fino a far emergere indirettamente la nostra prospettiva sulle cose, come un negativo da osservare in controluce, come una immagine e una musica residuale. In mezzo ai due attori del conflitto, tra Davide e Golia, ciò che resta è lo sguardo dei bambini che assistono impotenti alle nostre lotte per la verità, mentre cercano di correre via sull’unica grande opera davvero indubitale: l’albero della vita.
Corrado Punzi