Note di regia di "Rapito"
La storia del rapimento del piccolo ebreo Edgardo Mortara mi interessa profondamente perché mi permette di rappresentare prima di tutto un delitto, in nome di un principio assoluto. “Io ti rapisco perché Dio lo vuole. E non posso restituirti alla tua famiglia. Sei battezzato e perciò cattolico in eterno”. Il Non Possumus di Pio IX. Che è giusto per una salvezza ultraterrena schiacciare la vita di un individuo, anzi di un bambino che non ha, poiché bambino, la forza per resistere, per ribellarsi. Rovinando la sua lunga vita anche se il piccolo Mortara rieducato dai preti resterà fedele alla Chiesa cattolica, si farà prete (e questo è un affascinante mistero che non si può liquidare col solo principio della sopravvivenza, perché dopo la liberazione di Roma Edgardo, potendo finalmente “liberarsi”, resterà fedele al Papa) e anzi tenterà fino alla morte di convertire la sua famiglia rimasta fedele, invece, alla religione ebraica.
Il rapimento di Edgardo Mortara è anche un delitto contro una famiglia tranquilla, mediamente benestante, rispettosa dell’autorità (che era ancora in Bologna, l’autorità del Papa-Re), in anni in cui si respirava in Europa un’aria di libertà, dove si stavano affermando ovunque i principi liberali, tutto stava cambiando e proprio per questo il rapimento del piccolo rappresenta la volontà disperata, e perciò violentissima, di un’autorità ormai agonizzante di resistere al suo crollo, anzi di contrattaccare. I regimi totalitari hanno spesso dei contraccolpi che per un momento li illudono di vincere (il breve risveglio che precede la morte). Oltre l’estrema violenza dell’atto subito dal piccolo Edgardo, mi piacerebbe raccontare il suo smarrimento, il suo dolore, dopo l’abbandono forzato, ma anche il suo cercare sempre di conciliare la volontà del suo secondo padre, il Papa, con la volontà opposta dei suoi genitori di riportarlo a casa. Tenacissima la determinazione della madre, più debole la ribellione del padre che pensa soltanto al benessere del bambino. Edgardo, tentando per tutta la vita una riconciliazione impossibile, non rinnegherà mai i suoi genitori, le sue origini, non rassegnandosi mai al fatto che la madre resterà ebrea fino alla morte. Ma in questa conversone di Edgardo, sempre tenacemente affermata, non mancheranno le improvvise ribellioni, inaspettate, più o meno inconsce, non diventerà mai Edgardo un automa del Papa, e ne è la prova la sofferenza, con le numerose prolungate malattie che lo costringeranno a letto per lunghi periodi…
Edgardo pagherà anche fisicamente questa sua indiscussa affermazione di fede. La felicità resterà un ricordo, sempre più sbiadito, degli anni prima del rapimento (Edgardo non aveva ancora compiuto sette anni)… Come dicevo prima l’altro enigma di questa storia è la conversione di Edgardo. Il bimbo (troppo piccolo e facilmente influenzabile, che è la tesi prevalente. Convertirsi per sopravvivere. Che in tempi moderni si chiamerebbe la sindrome di Stoccolma) si converte e per tutta la vita resta fedele al suo secondo padre, il Papa, nella persona fisica di Pio IX. Ora, io non voglio cercare una posizione “mediana”, ma certamente la sua conversione così assoluta apparentemente senza aver mai un minimo dubbio rende il personaggio Edgardo ancor più interessante… E ci spinge verso mondi per noi inesistenti, ma che per tanti uomini esistono… Possiamo guardare da fuori il “fenomeno” o, con amore e partecipazione, tentare soltanto di rappresentare un bambino violentato nell’anima e poi un uomo che, fedele ai suoi violentatori che crede suoi salvatori, diventa alla fine un personaggio che ci esime da ogni spiegazione razionale. È un film, non è né un libro di storia o di filosofia, né una tesi ideologica.
Marco Bellocchio