Note di regia di "El Paraiso"
La genesi di El Paraiso si inserisce in un percorso biografico e artistico iniziato diversi anni fa, durante il lungo lavoro di montaggio del mio documentario Saro, un film in prima persona che racconta del mio primo ed unico incontro con mio padre, avvenuto quando avevo venticinque anni. Il mio obiettivo, creativo e forse psicoterapeutico, era conoscere un padre assente ma durante il processo di rielaborazione degli eventi mi sono accorto che stavo piuttosto approfondendo la comprensione della relazione con mia madre, più di quanto non avessi mai fatto prima. Questa scoperta ha generato un sentimento di accettazione e di conseguenza un amore rinnovato talmente forte da entrare nel film che intanto avevo iniziato a scrivere, fino a diventarne il cuore.
L’idea primigenia su cui stavo già lavorando veniva da una conversazione con Edoardo Pesce, ci eravamo conosciuti sul mio primo film e da allora era nata un’amicizia fraterna. Avevamo deciso di svilupparla insieme, ma era una storia ancora lontano da me e io avevo fortemente bisogno, dopo un esordio nato quasi su commissione, di ritrovare qualcosa di fortemente personale. Così il rapporto complesso tra Julio e sua madre, dapprima marginale, ha preso il sopravvento sul resto. Mi interessava esplorare la dinamica tra una madre e un figlio, una relazione piena di sentimento, simbiotica, stimolante, ma anche opprimente e totalizzante. L’impossibilità di separarsi, il non saper trovare un modo per emanciparsi da un rapporto fondamentale ma in fin dei conti anche deleterio, genera delle aberrazioni psicologiche: è questo il tema che mi pare attraversi il film nella sua interezza.
Ciò che mi interessava era però creare un dialogo costante tra il dentro e il fuori, tra l’interiore e l’esteriore, concentrandomi sul corpo dei personaggi come luogo di questo scambio. Un cinema del corpo più che del volto, che si mantiene in radicale prossimità con il personaggio senza ridursi al primo piano, tenendo il campo aperto per non perdere la fisicità e la plasticità dell’attore, concedendo agli attori una libertà di movimento e cercando sempre il modo per adattare di conseguenza il linguaggio del film. In questo senso è stata fondamentale la scelta, suggerita anche questa da Edoardo, di assumere completamente il controllo della macchina da presa, vestire i panni dell’operatore e vivere la scena da dentro, a contatto con gli umori dei personaggi, trovando insieme a loro il respiro della situazione.
Per poterlo fare ho chiesto alla mia scenografa di progettare e ristrutturare una casa esistente come se fossimo in un teatro di posa, per permetterci tutti i movimenti che avevo immaginato. E soprattutto per predisporre un cortocircuito, quello tra naturalismo e artificio, attorno al quale volevo definire lo stile del film. Da un lato cercavo una assoluta credibilità emotiva, un radicamento nel reale: ho voluto girare in cronologia, concentrare le riprese in un’area ristretta alla foce del Tevere che potesse diventare il nostro mondo, coinvolgendo persone del posto. Dall’altro cercavo di spingere questo stesso mondo al di là del realismo, attraverso i costumi, gli arredi, la fotografia, e persino la musica, per un costante rimando a un altrove che però – ecco il cortocircuito – volevo fosse sempre diegetica e presente sul set al momento delle riprese, avendo immaginato in anticipo la colonna sonora di ogni sequenza.
Così l’oscurità interiore di cui è permeato il racconto rimane in dialogo costante con uno scenario in netto contrasto: un angolo di Sudamerica immaginario, variopinto. La casa sul fiume, la barchetta tenuta in giardino, la musica latinoamericana, i colori sgargianti dei vestiti da ballo, la sensualità dei corpi in movimento, tutto partecipa alla descrizione di un mondo emotivo ricco, animato da quella vivacità dolente di cui è permeata profondamente la cultura colombiana, che avevo imparato un po’ a conoscere tra amicizie, amori e lunghi viaggi e attraverso i romanzi di Gabriel Garcia Marquez.
Proprio questa identità composta tra una romanità dolente e una vitalità caleña, ha animato la ricerca gli attori, sia per quanto riguarda le movenze, sia per trovare un linguaggio comune. Nessuno dei quattro attori principali parlava l’altra lingua (l’italiano o lo spagnolo, a seconda dei casi), e ognuno ha dovuto trovare la propria maniera di esprimersi, il proprio grado di ibridazione e pastiche perché io potessi giocare anche attraverso le incomprensioni, le reiterazioni, senza perdere una fluidità generale. Un lavoro particolarmente sfidante per Margarita Rosa de Francisco, che doveva recitare in gran parte in italiano, o meglio in romano, senza avere in precedenza alcuna dimestichezza con la lingua. Un altro incontro meraviglioso, quello con Margarita, uno dei tanti incontri che questo film ha in qualche modo predisposto intrecciando in modo indissolubile il cinema e la vita, la cosa più bella che possa accadere ad un regista.
Enrico Maria Artale