Note di regia de "L'ultima volta che siamo stati bambini"
Vi è mai capitato di leggere un libro e pensare che quella storia vorreste proprio vederla al cinema, che nonostante l’incisività del racconto non vi bastavano personaggi fatti solo di parole, didascalie e aggettivi, ma volevate poter vedere persone, facce, voci “vere”? Beh, a me è successo. E ho avuto la fortuna, la forza e soprattutto la caparbietà, di realizzare questo desiderio. Quando nei primissimi mesi del 2019 ho letto il libro di Fabio Bartolomei, ho sorriso e pianto. Quella era una storia importante e racchiudeva una combinazione di emozioni non facili da tenere in equilibrio, ma l’autore ci era riuscito in modo meraviglioso. Mi sono quindi chiesto: si può raccontare l’orrore senza mai mostrarlo? E lo si può narrare attraverso lo sguardo disincantato e inconsapevole di tre bambini di nove anni? La sceneggiatura che Fabio Bonifacci ha tratto dal libro, mi ha convinto che sì, era possibile. Il mondo visto dai ragazzini. Questo è il film. Il cuore di questo racconto è rappresentato dai bambini, dal loro agire, dalle loro parole e pensieri che imprimono alla storia un tono leggero e ironico. Buffo, malgrado tutto, perché in realtà loro sono serissimi. I quattro bambini che giocano alla guerra nella Roma del 1943 (questa storia è stata scritta e pensata prima della guerra in Ucraina, ma quando nel film si vedono bambini con fucili di legno che si “ammazzano per finta” come non pensare ad alcune immagini reali viste in televisione in questi mesi?) sono amici, hanno fatto tra di loro un “patto di sangue” (... anzi, di “sputo” perché tagliarsi il palmo della mano con un coltello fa troppa paura). Hanno giurato di aiutarsi sempre, qualunque cosa accada. E quando uno di loro scompare - Riccardo, il bambino ebreo -, per gli altri tre è naturale andare a salvarlo. La loro impresa, noi adulti del 2023 lo sappiamo bene, è disperata, ma per loro no. I loro ragionamenti, e di conseguenza le loro azioni, seguono una logica molto lineare, infantile ma a suo modo scientifica, quasi ovvia. E questo può provocare in noi adulti, consapevoli di come sono andate le cose, sorriso o commozione. Questa è la vera scommessa. Cercare leggerezza di racconto, di dialoghi e di recitazione in un contesto tragico come quello della seconda guerra mondiale, in un’Italia ormai occupata dai nazisti, con i soldati italiani allo sbando e con i treni carichi di ebrei e dissidenti che partono verso nord. Un road movie, quindi, che racconta l’amicizia, quella dell’infanzia, intesa quale momento della vita in cui si creano legami indissolubili. E una storia che li farà crescere molto, troppo in fretta, fino a fargli tristemente realizzare che quei tre giorni sono stati davvero l’ultima volta che sono stati bambini. Un film su un dramma a cui fra poco le nuove generazioni non potranno più avere accesso attraverso i racconti di coloro che ne furono vittime. Un film sulla memoria, perché solo la memoria può (forse) proteggerci da altri orrori, da altri genocidi. Preparando il film mi è stata certamente di aiuto e conforto la visione di film come Jojo Rabbit, Train de vie, La vita è bella, Un sacchetto di biglie... ma anche Il signore delle mosche, I ragazzi della via Pal e persino I Goonies! Non mi voglio dilungare sulle scelte “registiche” di luci, ambienti, inquadrature. Posso solo dire che ci è voluto davvero poco per riuscire a comunicare e convincere tutti i miei bravissimi collaboratori che non volevo fare un film “realistico”, ma neppure una “favola” e così ecco una prima parte romana lievemente decolorata a contrasto con i colori più vividi del viaggio. Ecco quindi scenografie ricostruite in studio a raccontare il cortiletto angusto nel quale i bambini giocano, accanto ad ambienti veri (vera è Trastevere, vero l’orfanotrofio). Ecco costumi che raccontano i personaggi con tessuti d’epoca, pezzi unici insomma, accanto però a scelte “fantastiche” quali la divisa da “balilla sommozzatore” che Vanda e Cosimo cuciono in una notte usando una tovaglia a quadretti. Ecco infine la macchina da presa, quasi mai ferma, con qualche piano sequenza ardimentoso per la messa in scena tra tedeschi, camionette in viaggio e messa a fuoco sui vari personaggi, ma anche disposta a fermarsi quando i bambini riempiono la scena con le loro azioni. La fase forse più lunga e complessa è stata proprio la ricerca dei bambini. Decine e decine di incontri e provini, perché non si trattava solo di trovare “facce giuste”, ma di scegliere i protagonisti del film. Quattro bambini che avrebbero dovuto affrontare pagine fitte di dialoghi che spesso prevedevano un ritmo quasi da commedia, ma anche intensi monologhi. Insomma, prove da attori “consumati”, oppure da attori “in fieri” però con grande talento e disponibili a mettersi in gioco singolarmente, ma anche pronti a fare squadra. Proprio per questo, una volta scelti i quattro protagonisti e prima di iniziare le riprese, ci siamo ritrovati tutti per una settimana in un casale toscano per un bootcamp (termine colloquiale inglese che indica l’addestramento militare delle reclute; per estensione indica anche un campo di addestramento, di qualunque tipo): non amo usare termini inglesi, ma in questo caso rende molto bene l’idea di quello che abbiamo fatto. Un lavoro al quale si sono uniti – con generosità, intensità e leggerezza commoventi - i due attori “adulti” e cioè Federico Cesari e Marianna Fontana (cinquant’anni in due). Devo ammettere che esordire con una storia ambientata negli anni quaranta, durante la guerra, con protagonisti dei bambini che attraversano l’Italia a piedi (e come mascotte portano con sé una gallina), non è stata la scelta più facile. Ma grazie alla collaborazione di tutte le persone sul set siamo riusciti a superare le difficoltà di galline che non volevano stare ferme, treni che non partivano e bambini che dopo un tot di ore, giustamente, volevano “riposarsi” giocando a pallone. Per finire due parole sulla squadra che mi ha supportato in questa mia “prima volta”. Tutti amici, ma soprattutto grandi professionisti che ho incontrato in questi quarant’anni di lavoro come attore. E quindi da Italo Petriccione alla fotografia, a Paola Comencini alla scenografia, Beatrice Giannini ai costumi, Luciana Pandolfelli al montaggio, Pivio e Aldo De Scalzi alle musiche, ma anche l’aiutoregista Leopoldo Pescatore, gli operatori Fabrizio Vicari e Emanuele Chiari, l’organizzatore Giuseppe Pugliese... lascio a voi cercare nei nostri rispettivi curricula dove e quando ci eravamo già incontrati (e ovviamente stimati). Senza dimenticare le tre persone che mi hanno davvero “convinto” a provarci, intendo dire a realizzare questo film come regista, e cioè Sandra Bonzi (che, tra le altre cose, mi ha fatto conoscere il libro di Bartolomei), Massimo Di Rocco, un prezioso amico e un produttore che come lui stesso ama dire “ha mangiato più cestini di tutti gli altri”, cioè un uomo del fare, un risolutore di problemi, e in questo lavoro i “problemi” sono all’ordine del giorno e sempre in agguato. E Giampaolo Letta, al quale un Natale di qualche anno fa regalai il libro di Bartolomei dicendogli che avevo opzionato i diritti per farne un film e lui quarantotto ore dopo mi telefonò dicendo con entusiasmo: “Facciamolo!”.
Claudio Bisio