Note di regia di "Dall'Alto di una Fredda Torre"
L’idea del film parte da un lungo sodalizio tra me e l’autore Filippo Gili che ci ha visto negli anni indagare sui grandi temi universali, ovvero la vita e la morte, il destino e il libero arbitrio, cercando di avventurarci però sempre di più per sentieri fin qui inesplorati. In DALL’ALTO DI UNA FREDDA TORRE infatti si vuole affrontare l’angoscioso dilemma se sia giusto o no incidere sul destino degli altri, se sia lecito sostituirsi al fato, ponendo i protagonisti di fronte alla facoltà/responsabilità di dover decidere se far Vivere e/o far Morire un uomo, con tutta la questione morale e sociale che ne consegue. Ma lo fa, a mio avviso in maniera assolutamente originale, ponendo questi temi non come “grandi” questioni filosofiche da sviscerare in un simposio, ma declinandole in un contesto familiare, quel microcosmo contemporaneo che ci permette, proprio grazie alla riconoscibilità di situazioni quotidiane, di predisporre immediatamente il pubblico ad un meccanismo automatico d’immedesimazione e di catarsi, tanto da farsi carico a sua volta delle domande e dei dilemmi che travolgono i protagonisti di questa assurda storia.
La famiglia però non vuole limitarsi a sfondo o contenitore per questa vicenda, che diventa un incredibile prisma che permette di riflettere, distorcere, portare alla luce tutta quella miriade di dinamiche e meccanismi consci e inconsci sulle quali si fondano da sempre le relazioni familiari.
La scelta se salvare il padre o la madre, ovvero se uccidere il padre o la madre, è l’enorme inatteso inspiegabile macigno che cade infatti sulla testa dei due figli, Elena e Antonio, troppo ‘piccoli’ però per poter resistere ad un colpo così ferale.
Come in un gioco si dovrebbe ‘semplicemente’ decidere chi “buttare giù dalla torre”. Ma lo si può fare solo per istinto? E qual è il tempo dell’istinto? Da quando si può parlare di intinto e non di ragione? Che poi sono gli stessi interrogativi che si pone all’inizio del film, quasi fatalmente, l’ignara famiglia durante un divertente, quanto tragicamente premonitore, gioco di ruolo.
La verità è che non esiste una scelta giusta o sbagliata. Non in questo caso. È possibile una scelta, sì, ma sarà sempre una scelta che salverà una vita condannandone un’altra, che ti permetterà di donarla diventando un assassino. Se però la scienza pretende sempre e comunque una scelta, la coscienza e la psiche si troveranno a farne drammaticamente i conti.
E così sarà, inevitabilmente, anche per i due fratelli che saranno costretti a fare un viaggio agli inferi alla disperata ricerca di una risposta che non esiste.
Lo stesso viaggio che nel film farà Dario, il cavallo di Antonio, dove il suo fuggire dalla cascina, il suo correre a perdifiato lungo il crinale della gravina, il suo stazionare maestoso affianco alla torre diroccata, il suo calarsi giù in fondo ad essa, rappresenta metaforicamente il viaggio interiore di Elena e Antonio il cui stato d’animo oscilla pericolosamente tra l’obbligo di scegliere e l’impossibilità di farlo.
E la cosa per me entusiasmante di questo film è proprio questa: cercarla questa risposta, indagare l’ignoto, esplorare nell’animo più profondo dei personaggi di questa assurda vicenda: quello degli ignari genitori, che non sanno ma forse intuiscono e decidono comunque di non indagare, quello dei due medici in bilico fra un’etica professionale dettata dal giuramento di Ippocrate che pretende di “Salvare, se si può, una vita. Sempre.” e un’umana con-passione, ma soprattutto quello di Elena e Antonio, nei quali inevitabilmente ci rispecchieremo cercando, insieme a loro, una risposta che riesca il più possibile ad accomodare i nostri sensi di colpa e mettere a tacere i nostri fantasmi quotidiani.
E tutto ciò, all’interno di un’ambientazione fortemente arcaica che solo certi paesaggi del sud riescono a regalarci, rende Dall’alto di una fredda torre una vera e propria tragedia moderna che si fonda sugli archetipi della tragedia greca.
Francesco Frangipane