Note di regia di "Amen"
Sono sempre stato affascinato dal concetto di limite.
Nel corso degli anni poi, ho maturato che fosse più di una fascinazione, ma addirittura una vera ossessione.
Amen nasce dal caso che, nel periodo successivo alla reclusione e alla limitazione comune,
scoprissi un luogo (il casolare delle riprese), che per me rappresentava allo stesso tempo il ricordo della felicità e quello dei divieti.
Nei giorni successivi a quella scoperta, non riuscivo a non tornare continuamente a quella
sensazione.
Ho impiegato poco meno di due settimane per scrivere una sceneggiatura che non esisteva, e che non era mai esistita in forma di soggetto.
Esattamente 28 giorni dopo aver visto il casolare, ero sul set e iniziavo a girare come fossimo dentro una Comune, con un gruppo di amici che voleva sperimentare con me il concetto di limite.
Tirando le somme sono stati 45 giorni in stato di trans, come se la vita potesse temporeggiare, e appunto, si fosse fermata ad aspettare la mia mossa.
Nei pressi di Roma avevo scoperto un luogo che mi catapultava nella percezione dell’infanzia, nel passaggio tra quella e l’adolescenza, mentre mangiavo fichi e attendevo il primo pomeriggio, in attesa che gli zii, i genitori e i cugini si svegliassero dalla siesta.
Un casolare che assomigliava tremendamente a quello dei miei nonni con i quali trascorrevo i tre mesi estivi sulla costa laziale.
Una volta in quel luogo, ho usato l’intuito e maneggiato la materia che avevo a disposizione.
Cercavo di formare gli oggetti reali che trovavo, per arrivare ad una deformazione nella psicologia dei personaggi, senza paura di raccontarli, estremizzandoli lì dove potessero diventare paradigmatici.
Ognuno dei sei componenti della famiglia avrebbe dovuto declinare in maniera diversa il tema, condizionato a sua volta dal limite del suo superiore, giocando in una scala gerarchica costruita sull’anzianità e sul senso di colpa religiosa che contraddistingue questi nuclei.
Creato il campo di gioco, ho lanciato gli attori in un recinto e ho chiesto loro di diventare una famiglia. Li ho osservati; li ho prima indotti attraverso la suggestione e poi li ho lasciati liberi.
Dopo i primi giorni di riprese, mi sono accorto di poter contare totalmente su di loro.
Soprattutto con le tre sorelle, avevo sviluppato una volontà nascosta agli altri del gruppo, di vedere dopo potevo arrivare sfuggendo al controllo degli adulti. E’ stato emozionante.
A quel punto mi sono lasciato condurre in un mondo atemporale che speravo esistesse.
Non penso che il processo di questo film abbia avuto una creazione canonica e penso ancor meno che possa essere replicabile all’interno dell’industria cinematografica.
Però era esattamente quello di cui avevo bisogno per iniziare.
Volevo fortissimamente toccare e sporcarmi con la terra di quel casolare e lavarmi nella vasca familiare messa dentro un ex mangiatoia per cavalli.
Guardando al risultato finale sono grato per il processo in toto: se Amen esiste, lo deve ad una serie di fortunate e sensibili conseguenze.
Andrea Baroni