Note di regia di "Fela Il Mio Dio Vivente"
L’UTOPIA DI MICHELE, OVVERO L’UTOPIA DEL CINEMA
Quando Renata di Leone mi ha raccontato la storia di Michele Avantario, in un incontro casuale alla Festa di Roma del 2019, ho immediatamente avuto la sensazione che fosse una storia che in quel momento avevo voglia di raccontare. È la storia di una passione travolgente per il cinema come strumento di conoscenza del mondo, funzione che il cinema a un certo punto ha totalmente delegato alla televisione e ad altri media. Leggendo poi i suoi appunti sotto forma di diario, lasciato ai p osteri con l’ansia che potesse essere una traccia per comprendere quella sua grande passione, mi sono convinto che la sua vicenda fosse anche qualcosa in più , perché l’ incontro con Fela Kuti, con l’Africa più profonda e cosciente di sé, è stato anche un ri baltamento, tanto più inconsapevole quanto più radicale, del punto di vista colonialista che noi europei, anche quando animati dalle migliori intenzioni, non riusciamo a dismettere. Per noi l’Africa, quando va bene, è un inferno dal quale salvare gli afric ani che scappano morendo nel deserto o in mare. Noi i demoni e i salvatori allo stesso tempo, loro i dannati della terra. Uno schema nel quale restano ancora impigliati anche gli spiriti più eletti , illudendosi di fare chissà quale denuncia e finendo per r appresentare, purtroppo, solo i propri limiti.
FELA, UN DIO MOLTO UMANO
Nei suoi appunti , Michele descrive Fela Anikulapo Kuti come una persona controversa di enorme carisma e talento e arriva a definirlo pubblicamente “il mio dio vivente” il giorno del funerale, davanti a due milioni di persone ammassate per l’ultimo omaggio al loro Black President. Per afferrare cinematograficamente la storia di Michele e del suo film impossibile, ho inizialmente provato a sprofondare nelle suggestioni di quei pochi grandi autori occidentali che hanno provato a raccontare l’Africa e la sua diaspora figlia dello schia vismo. Per esempio, Maja Deren, che con i suoi film straordinari girati ad Haiti fu lei stessa “accompagnata” da una figura guida, da uno spirito - guida, e che si è immersa, perdendosi, nel mondo del woodoo . Oppure Jean Rouch, che con il film Les maîters fo us sconvolse la comunità stessa degli scienziati ed etnologi occidentali, oltre che il pubblico, raccontando un sacrificio animale come esorcismo del male assoluto indotto dalla colonizzazione . Il maestro del documentario francese in particolare ricorre negli appunti di Michele, come punto di riferimento da seguire e allo stesso tempo da demolire , attraverso il famoso incontro/scontro con Ousmane Sembene, grande cineasta senegalese , cosciente fino in fondo dei guasti del colonialismo, anche quello dalle “migliori intenzioni” di Rouch.
Ho piano piano compreso che le immagini girate da Michele sono molto distanti da quelle di altri cineasti occidentali, non hanno un intento antropologico, sono del tutto soggettive , quasi sognate , e raccontano qualcosa di inedito. Quindi ho dovuto cambiare strada, “ascoltare Michele” e abbandonarmi del tutto alle sue suggestioni acerbe, per certi versi pure. Michele non era un intellettuale, uno studioso, un etnologo , era semplicemente un giovane cineasta occidentale, figlio della crisi del cinema causata dell’avvento del video e che , desideroso di rompere le barriere della propria cultura , nel suo cammino ha “incontrato dio in persona” , Fela, realizzando una cosa enorme: Michele si è fatto invadere dall’Africa ribaltando il paradigma coloniale. Persino il cinema terzomondista, che in Italia ha avuto illustri rappresenta n ti (Pontecorvo, Lorenzini, Giannarelli, straordinari cineasti), non si era mai dato questo compito, perché nell’intento politico “alto” di denunciare i mali del capitalismo colonialista, non aveva potuto abbandonarsi alla ampiezza e alla profondità della cultura africana.
FELA , MICHELE E NOI
Perché Michele è riuscito là dove altri non hanno nemmeno tentato? Fela non era semplicemente un musicista, era molte altre cose: un politico, un vate, un sacerdote di riti animisti ai quali Michele assistette inizialmente incredulo , poi partecipe fino ad esserne profondamente coinvolto se non sconvolto. Michele ha fatto lentamente cadere tutte le sue barriere culturali ed emotive. Fela lo sottopone a un ’ angosciante, estenuante attesa, gli fa sperimentare un fallimento catastrofico e attraverso quello lo conduce alla conoscenza di sé. Questo percorso di conoscenza è il regalo che Michele fa a tutti noi attraverso la sua esperienza ed è questo che ho sentit o il desiderio di raccontare. Ecco perché il film ha lentamente assunto le sembianze un trip, un viaggio nella coscienza di Michele che inizia la sua vita adulta negli anni ’70, gli anni del “dio è morto”, della liberazione sessuale, del conflitto sociale, della diffusione degli stupefacenti e dell ’ esplosione del rock e che lo conducono a confrontarsi con quello che sarà in tutto e per tutto il suo dio in terra: Fela Anikulapo Kuti . Per questo, ciò che il film racconta di Fela Kuti è totalmente filtrato dalle immagini, dalle parole e dalle idee di Michele, dai conflitti, dalle ossessioni e da gli incubi attraverso i quali Michele entra in contatto con il suo Babalawo, il suo mentore.
Claudio Santamaria , con la sua interpretazione sentita, ci conduce nei meandri di una avventura umana e cinematografica molto più grande e importante di quello che sembra: l’avventura di un giovane che scopre il mondo , perseguendo ossessivamente un ’ idea grandiosa, quella di un film che racconti The Black President, l’uomo che stava cambiando per sempre la storia culturale e politica dell’Africa. In questo modo credo possa essere la storia di ogni giovane, di ciascuna parte del mondo, desideroso di uscire fuori di sé, dai limiti della propria quotidianità, quindi un racconto universale. In questo viaggio non poteva mancare la funzione “di sguardo” e di “testimone” che Renata D i Leone ha svolto in questi anni, tenendo nel cuore la storia di Michele e offrendocela con generosità, avendo lei l’Africa addosso e dentro per le sue chiare e rivendicate origini. Renata ha accettato di “ballare” la sua storia perché è dal suo “corpo” ol tre che dalla sua anima che emerge la vicenda che abbiamo raccontato.
I repertori, sia quelli realizzati da Michele che quelli frutto della grande ricerca che abbiamo fatto , utilizzando 47 diverse fonti archivistiche, sono lavorati con la più esplicita e assoluta libertà, nel desiderio di valorizzarne la forza soggettiva, emotiva, intrecciata con la musica di Fela , ma anche con la musica di Teho Teardo , che si interroga sul passato affinché non risulti solo una rassicurante passeggiata emozionale sulle vicissitudini che il film documenta, ma cerca di captare i segnali lanciati dalla travolgente arte di Fela Kuti che hanno contribuito a trasform are la vita di Michele. Restituire il cambiamento di Michele è il compito della musica di Teho in questo film, senza nostalgia, anche sospendendo il rapporto con il passato. Quei segnali sono tuttora in circolo perché l’afrobeat, l’alleanza sonora e polit ica tra Fela Kuti e Tony Allen, ha cambiato le sorti della musica e, in alcuni casi, anche di chi si è messo in ascolto. Nel film la musica di Fela Kuti , nella relazione con il montaggio , si fa ancora più ipnotic a , travolgente e passionale , divenendo l’anima del racconto di quel recente passato. Lo stile di montaggio , nella partecipata esattezza del montatore Andrea Campajola, è una personale chiave di lettura di un film tra i più complicati che abbia fino ad ora realizzato.
Daniele Vicari