Note di regia di "Il Pianista Muto"
Più volte ho manifestato a Paola Capriolo alla quale sono legato da stima ed amicizia, nata in occasione della mia trasposizione filmica del suo racconto “Il gigante”, l’auspicio che le nostre esperienze tornassero ad incontrarsi, persuaso che un fruttuoso rapporto tra cinema e letteratura implichi sempre un “comune sentire” tra scrittore e regista, pur nel rispetto delle singole diversità linguistiche/espressive. La lettura de “Il pianista muto”, del quale Paola mi ha fatto omaggio con dedica, come sempre all’uscita di un suo libro, mi ha convinto che quell’auspicio doveva trovare il suo compimento.
Al contrario di altre sue opere, la vicenda narrata è ispirata ad un episodio realmente accaduto: il ritrovamento, su una spiaggia deserta, di un uomo senza identità né memoria, rivelatosi uno straordinario pianista.
Confesso che il misterioso personaggio suscitò anche il mio interesse, tanto che pensai di raccontarne la storia in un film. Ma cosa narrare – mi sono chiesto – e con quale chiave espressiva? In virtù della capacità di Paola di conferire sorprendente compiutezza espressiva alla materia narrata, l’idea di tradurre in immagini sentimenti ed emozioni, prima che un susseguirsi di accadimenti, è stata la risposta alle mie domande.
Vorrei qui soffermarmi su quelle che sono le istanze narranti e le soluzioni drammaturgico-espressive nella prospettiva della trasposizione filmica del racconto; vale a dire, l’insieme dei miei criteri registici.
Se taluni brani del racconto hanno scarsa ragione d’essere lontano dalle pagine del libro, diversi sono gli spunti tematici che rappresentano una rilevante materia espressiva. Primo tra tutti quello della patologia mentale, intesa come disagio esistenziale, necessità/incapacità di dare un senso alla vita, comprendere/rimuovere il passato; del male d’amore, conseguenza di un sentimento ossessivo e divorante. Temi, che assurgono a metafora del mistero della solitudine della condizione umana, la cui universalità è espressa dal potere della musica di destare il tempo, citando Thomas Mann.
Quando si parla di malattia mentale, il pensiero va all’esistenza di patimento, la “vita senza domani”: toccante titolo del diario segreto di una ex degente di quello che fu l’Istituto psichiatrico di Trieste; alle vite trascorse, talvolta per lunghi anni, in luoghi di segregazione e coercizione, quali sono stati i manicomi. Tutto questo mentre hanno imperato le più diverse interpretazione del fenomeno: patologia della psiche; disturbo della mente, conseguenza di alterazioni psicologiche, problemi sociali, fattori culturali, conflitti familiari.
Il cinema s’è occupato più volte e con diverse visuali del fenomeno della malattia mentale, pervenendo ad esiti talvolta rilevanti. A fronte di tali rappresentazioni/interpretazioni, ciò che ritengo espressivamente pregnanti nel racconto filmico è la traduzione del “buio della mente” in disagio esistenziale, “buio dell’anima”; riflessione filosofica sull’angoscia del vivere, la vacuità dell’esistenza, l’incapacità di avere coscienza di sé. La descrizione di mondi paralleli, dove trovano posto il sovvertimento dei sentimenti, l’opporsi senza speranza all’imponderabilità del destino, la vertigine della morte interiore, la pericolosa evasione dal torpore del cuore e dell’esistenza.
La clinica psichiatrica descritta nel romanzo di Paola Capriolo è un luogo “altro”; uno spazio, inteso metafisicamente, dove albergano il subbuglio dell’anima e dei sentimenti. Eppure, al suo interno regna l’ordine estetico, la meticolosa ricerca dell’armonia. Ne è espressione il giardino d’inverno dove trova posto il pianoforte, come se la sola sua presenza possa irradiare di rasserenanti melodie ogni anfratto; non vi sono stanze d’isolamento, camice di forza, terapie coercitive, elettroshock, e neppure il “lettino dello psicanalista”. I pazienti che vi sono ospitati non hanno menti malate ma anime, fatta eccezione per il personaggio della signora Doyle, figura simbolica dello sconfinamento del malessere esistenziale in follia. I degenti dell’Istituto scoprono, grazie alla musica, la necessità di svelarsi a sé stessi, attraverso la rievocazione di un passato mai rimosso. Si pensi a Rosenthal che arriva al gesto estremo del suicidio, scoprendosi incapace di convivere con il ricordo; ma anche la segreta attrazione di Nadine per il pianista muto, che riporta alle grandi eroine del melodramma italiano.
Soffermandomi sull’impianto drammaturgico ed i suoi snodi – nella trasposizione filmica / la successione delle scene e delle sequenze, il “conflitto” – ho in mente una narrazione dominata dall’ambivalenza: dei personaggi (l’indecifrabile rapporto di convivenza tra i pazienti, ed in particolare tra costoro e il pianista muto; la misteriosa affinità, tra quest’ultimo e Nadine, in virtù della musica) e della collocazione scenografica / temporale, teatro dell’intera vicenda. Penso al “non luogo” del ritrovamento del pianista muto – un “mondo fuori” che travalica i confini del tempo -, così come, per molti versi, l’interno della clinica psichiatrica. Una lettura, potrei dire, nella direzione della poetica del realismo visionario, oggetto dei miei studi da qualche anno a questa parte ed espressione della mia attuale visione di cinema.
Costruzione filmica
Ciò che più m’interessa, è porre al centro del racconto filmico la perturbazione ad opera della musica; il parallelismo tra perturbazione dell’anima subita dai pazienti, e quella dell’esistenza / del cuore, (dell’anima in senso romantico), che accomuna il pianista a Nadine, ma al tempo stesso li distingue: densa di fantasmi l’esistenza del primo; non vissuta e “malata” nell’inseguimento di un sentimento d’amore assoluto ed impossibile, quella della seconda.
Nel disvelamento del mondo interiore dei protagonisti attribuisco grande importanza all’apporto di elementi squisitamente filmici quali: la scelta dell’inquadratura, i movimenti di macchina, lo studio della scenografia, la fotografia, il montaggio.
Riguardo alla composizione dell’inquadratura, la scelta dei movimenti di macchina e l’articolazione del montaggio, è mia intenzione superare il mero criterio estetico conferendo alla rappresentazione filmica una connotazione fortemente simbolica.
Fotografia
La composizione dell’inquadratura non può assolutamente prescindere, nella mia idea di cinema, dallo studio fotografico. In tal senso ritengo utile fornire, già in questo contesto, delle indicazioni a chi si occuperà dell’illuminazione della scena, ma anche agli attori che la abiteranno.
Tornando a riferirmi al realismo visionario, penso ad immagini e suggestioni che traggano ispirazione da opere ed artisti che ne sono state, variamente, espressione; penso, in particolare, alla neovisionarietà propria del movimento pittorico italiano nel ‘900 fino all’inizio di XXI secolo. Un’intuizione espressiva che si fonda su un ritrovato rapporto con la coscienza, l’inconscio e la sua forza propulsiva. Un universo d’immaginazione, illusione; l’interpretazione – prima che la rappresentazione – della realtà. Penso alla pitto-fotografia di Francesco Paolo Michetti, nelle cui opere convivono intimismo lirico e simbolismo. La successiva scelta a favore della fotografia coincise con una profonda revisione della sua visione pittorica e ne testimonia l’inclinazione verso nuovi strumenti espressivi: oltre alla fotografia, il nascente cinema. I pittori/poeti dell’immaginario nelle cui opere ho rintracciato l’immagine filmica che ho in mente, sono Fabrizio Clerici e, con salto a ritroso di oltre 170 anni…, Johann Heinrich Fussli. Un’opera, quella di Clerici, pittore visionario tra i più significativi del XX scolo, connotata dalle atmosfere sospese, le luci filtrate; d’ispirazione romantica, dominata dal dissolvimento dell’”Io” nell’alienazione ed il dolore, la pittura di Fussli: penso, in particolare, ad una delle sue tele più celebri: “L’incubo”, raffigurante la personificazione del demone-incubo con le sembianze di una scimmia, seduto su una ragazza dormiente nella sua stanza. Degno di nota l’uso del colore e del chiaroscuro, il dominio delle ombre degli incarnati, l’illuminazione dai toni caldi della figura femminile.
Musica diegetica ed esplorazione dei ”perché espressivi”.
Da cineasta e cultore della musica nelle sue molteplici forme, sono da sempre sedotto dall’universo creativo che presiede alla composizione di un brano musicale, che abbia o meno la funzione d’integrare la valenza espressiva di una scena/sequenza. Nel primo caso si traduce in un intervento esterno allo svolgimento narrativo, ma non a quello filmico. Esiste, diversamente, una musica diegetica che vincola azioni/psicologie dei protagonisti ed attiene all’auricolarizzazione, la definizione del rapporto tra il “sentire”
dello spettatore e il/i personaggio/i del racconto. E’ il caso dell’elemento musica nel
racconto de “Il pianista muto”.
Scrivere (leggi: vedere filmicamente) – è stato detto – è un po’ come essere guidati dalla nostra musica interiore. Per quanto mi riguarda, seguire questa musica ha determinato l’esplorazione dei “perché espressivi” dei compositori i cui brani vengono eseguiti dal pianista muto, in stretta connessione con l’analisi dell’identità sconosciuta di quest’ultimo e quella riposta degli altri protagonisti del racconto. In tal modo, i mondi interiori e gli input creativi dei primi, arrivano a sovrapporsi a quelli dei secondi, ne divengono analisi introspettiva. L’elemento sentimentale – l’espressione/rappresentazione dell’animo umano – viene così oggettivato, quanto i “perché creativi”. Potrei dire che l’espressionismo musicale, la carnalità mitigata dal misticismo di Listz, divengono – così come il “regno delle ombre” e l’oscuro passato, propri di Chopin – il misterioso mondo interiore del pianista muto; il romanticismo inquieto di Schumann, la sua eterna fanciullezza, traducono la passione d’amore ed i turbamenti di Nadine, quanto l’infelicità, i pensieri suicidi e la follia del musicista tedesco, rivelano il tragico vissuto dell’ex internato Rosenthal.
Il romanticismo spiccatamente individualista del musicista tedesco fu espresso mirabilmente nei suoi Lieder. Maestro ineguagliabile, tuttavia, della medesima forma espressiva – “ambientazioni sonore” che illuminano dei versi di canzoni di significati profondi – è stato Franz Schubert. Le note tragiche e spettrali del suo capolavoro “Winterreise”, evocazione dell’errare disperato di un amante, costituiscono una potente immagine simbolica del patimento esistenziale. Un mondo di fantasmi con cui è impossibile convivere, che trova rispondenza in alcune delle liriche di Goethe, ma anche di Herder e Shiller; autori verso i quali Schubert manifestò una particolare predilezione.
Immaginando un concerto per pianoforte come unicum espressivo con cui il protagonista svela le sue inquietudini e, a poco a poco, se stesso, dà vita alla silente ma emozionale corrispondenza con Nadine, desta le esistenze dei pazienti, potrei parlare di una partitura dei travagli interiori, dell’inconscio e dell’ottenebramento delle facoltà intellettuali, dello smarrimento nell’infinito e la “nostalgia del presente”, intesa come intimo desiderio di riappropriarsi delle realtà perduta; una musica, intrisa di tragedia e soavità, romanticismo e orrore, all’insegna del rapporto shellinghiano tra spirito e natura, tra Io mitizzato e finitezza umana.
In tal senso, se la pudìca intimità propria dell’opera di Schubert appare tanto diversa
da quella morbosamente audace e frutto della tragedia interiore propria di Schumann
– quanto la musica insondabile, a tratti torbida, espressione di un’esistenza quasi incorporea di Chopin è comparabile con quella di Liszt, per lo straordinario virtuosismo pianistico di entrambi – ritengo che nell’esplorazione dei perché espressivi di alcune delle loro opere sia possibile scorgere una comune voce dell’anima, connotata di passione e mistero. L’inquieta melanconia di “Sogno d’amore” e “Mephisto – Walzer (op.
n.1 in Mi Bemolle Maggiore) di Listz, accomuna in qualche modo quest’ultimo a “Traumerei”/Sogno, dalle “Scene infantili” Op. 15, di Schumann – che pure non si può dire che sia stato amico del musicista ungherese – dedicate all’amata Clara. Allo stesso
modo la grazia, che ne cela una profondità d’ispirazione, di “Notturno” n.2 (in Mi Bemolle Maggiore op.9) e “Preludio” (in Re Bemolle M, n. 15 – “La goccia d’acqua”) di Chopin, risultano così affini al malinconico romanticismo di “Serenata” (da “Schwanengesang”) di Franz Schubert; la tragicità senza speranza di “Winterraise, si rintracciano in “Marcia funebre” (nella sonata n.2 in Si Bemolle Maggiore, op. 35) ancora di Chopin. Si tratta di affinità, punti di connessione espressivi, nella direzione di quell’unicum di cui s’è detto.
Il protagonista
La sua descrizione – allo stesso modo di quella degli altri personaggi del racconto - pur partendo da quella del romanzo, sviluppa – plasma – ciò che questa evoca. In altre parole, il personaggio, “liberato” dalla costruzione letteraria, assume una più complessa verità nella rispondenza dei codici espressivi che riguardano un’opera cinematografica.
“…Magro, piuttosto slanciato, pallido, eppure illuminato da un fuoco sfavillante negli occhi…Un’espressione sofferta ma forte in volto, l’andatura incerta: pare che cammini sollevato da terrà…Dà l’impressione di essere distratto, a disagio, come uno spirito che attenda il rintocco di un orologio ad annunciargli che deve ritornare nell’oscurità…”. E’ la descrizione di Franz Liszt, allora ventiduenne, fatta dalla contessa Marie d’Agoste che per lui lasciò suo marito; ma potrebbe attenere in modo altrettanto esatto alle sembianze – l’apparire agli altri – del pianista muto. Così come, sorprendentemente, sembrano appartenergli, fino quasi a farcene percepire la personificazione, il temperamento di Chopin: il mistero che avvolge la famiglia e la gioventù, il suo naturale talento pianistico insofferente all’osservanza di ferree regole di composizione musicale. Al contempo, nella direzione di quell’osmosi tra uomo e musicista, la figura del pianista muto esprime la dolcezza di esecuzione che fu di Schubert: quella ineguagliata capacità di sfiorare i tasti del pianoforte in virtù della quale produceva un suo suono cristallino. E ancora: il romanticismo che sfocia nel pathos, la passionalità focosa, i sentimenti intimi, lacrimevoli e sensuali, propri di Schumann.
Quando il misterioso personaggio, tra i venticinque ed i trent’anni, con indosso un frac liso che gli conferisce un fascino inquietante, viene rinvenuto su una spiaggia, nessuno può sospettare che egli serbi in sé il potere di “fermare il tempo”. Un potere che si esplica nel momento in cui accende il cuore di Nadine e ne determina l’attesa ragione di vita; coinvolgimento che assume i contorni della vertigine. Nessuno immagina cha la che la musica di questo ragazzo, silente come la spiaggia che lo ha strappato alle onde, sortisca l’effetto di perturbare l’animo umano. Nei silenzi profanati – un tempo sospeso fatto di attese e vuoti – risiede la sua contraddizione: un insieme di passione e controllo; sentimenti che si contrappongono fino ad annullarsi. “E’ come se un giorno qualcuno gli avesse rubato l’anima, lasciandogli solo la sua ombra”, citando un brano del libro “Presto con fuoco” di Roberto Cotroneo, un romanzo – come quello di Paola – attorno al mistero della musica e dell’essere al mondo.
Vorrei aggiungere che il “mio” pianista muto, così come sembra esprimere l’immagine sulla foderina del libro – l’autoritratto di Lino Frongia, i cui occhi e lo sguardo sono celati da un ramo – è una creatura che ha timore di sé, del suo misconosciuto presente/passato, e non sa rivelarlo neppure a se stesso, fin quando Nadine non riesce a rapirlo alla sua oscurità. E’ un essere in fuga dai suoi fantasmi. Ma è, soprattutto, l’immagine dell’”arbitrio esistenziale”; l’umana condizione di patimento e l’impossibilità di individuarne la ragione, nella quale l’unico conforto risiede nella certezza della dipartita: il solo evento che determina la fine definitiva, certa, d’ogni sofferenza.
Roberto Petrocchi