LA BOCCA DELL'ANIMA - Uno sguardo puro
1949: dopo la guerra e il carcere, Giovanni ritorna a Petrasanta, il suo paese natale sulle montagne della Sicilia. Arranca, resiste, sviene. È stanco, malandato e malato e i compaesani lo portano da Mariannina, la santona del paese. Per la guarigione c’è un prezzo da pagare, che è insieme una benedizione e una disgrazia.
Giuseppe Carleo si approccia ad una storia al contempo intima e collettiva con uno sguardo puro, che si mette al servizio dell’universo che racconta senza volerlo sopraffare con l’imposizione della propria presenza: in ogni (bellissima) inquadratura si respira il profondo rispetto dell’autore per quel mondo magico che è al confine tra tradizione e misticismo, a riprova di quanto il film sia basato – come indica la didascalia conclusiva – “sulle ricerche dell’antropologa
Elsa Guggino e su un’esperienza diretta con gli ultimi guaritori magici ancora attivi in Sicilia”.
Sebbene
La bocca dell’anima sia la prima regia di un lungometraggio narrativo per Carleo (che ha in curriculum il documentario
Picchì chi è? e vari cortometraggi tra cui
Parru pi tìa), l’autore palermitano – qui anche sceneggiatore insieme a
Carlo Cannella – dimostra notevole padronanza del linguaggio cinematografico e grande attenzione per ogni sua componente.
La fotografia di
Leone Orfeo è magnifica in quanto sa costruire negli interni un’atmosfera calda e misteriosa che riesce con la luce a far parlare gli spazi, gli oggetti e i corpi, mentre negli esterni fa sì che gli spazi aperti si carichino dei toni freddi dell’inverno penetrando nell’animo dello spettatore; le scenografie di
Laura Inglese e i costumi di
Dora Argento sono realizzati con criterio e con la stessa passione etnografica che abbraccia l’intero film; gli interpreti sono eccellenti (in particolare
Maziar Firouzi nei panni del protagonista e la sublime
Serena Barone in quelli di Mariannina); il montaggio di
Riccardo Cannella è perfetto nel dare e riprendere il respiro del paesaggio e della natura infondendo tensione drammatica allo sviluppo narrativo; le musiche di
Paolo Brignoli sono la componente necessaria – presente e discreta, a seconda dell’esigenza filmica – a sostenere l’impatto emotivo del racconto.
Inoltre, sempre per quanto riguarda l’impianto sonoro del film, non si può non sottolineare l’uso del dialetto, scelta coraggiosa ma unica possibile nel quadro di un’opera che si dimostra essere non tanto rappresentazione di un folklore bensì restituzione di un intero mondo, che affonda le sue radici nell’humus di una terra (la Sicilia) e in un vissuto collettivo che rivendica uno spazio legittimo di esistenza troppo spesso soffocato da irrisione, maldicenze, indifferenza e scetticismo.
Il punto di vista del film, invece, tende a sposare proprio la liceità di uno spirituale alternativo rispetto a quello cattolico, mettendo anzi quell’universo di credenze “tradizionali” in contrasto con i riti e la religione della Chiesa, non per opporne le valenze pratiche, curative o genericamente spirituali, piuttosto per rendere esplicita una riflessione sociologica sul tema del potere.
Attraverso l’entità di “Marchese”, Giovanni diventa espressione di un’alterità non incasellabile, non imprigionabile nelle maglie del potere e da esso non governabile, che sia quello temporale della Chiesa (che attraverso il sacerdote anela al controllo delle anime e quindi all’irreggimentazione della società) o quello mafioso che cerca la conquista economica del territorio. Giovanni “non è di questo mondo”, è un incompreso e scomodo messia che patisce un (altro) calvario, che sa vedere oltre e custodisce dentro di sé una (La) scomoda verità. Quella verità che la poesia del bellissimo finale ci restituisce.
24/09/2024, 08:32
Alessandro Guatti