Note di regia de "L'Albero"
Questa storia, prima di diventare una sceneggiatura, ha preso negli anni diverse forme – diari, romanzi, fanzine fotografiche, fumetti – tutte inconcluse. Era il tentativo di elaborare un vissuto denso, traumatico, ma anche felice. Di trasformare in parole il sentimento della nostalgia. Ed era il tentativo di riportare indietro cose che se ne stavano andando o se n’erano già andate. Per questo pensavo che questa storia riguardasse solo me. Ma dopo aver scritto il film, ho capito che poteva parlare anche ad altri. Che poteva mostrare un mondo femminile in cui le ragazze si muovono sole, chiuse dentro piccoli microcosmi, libere e vitali ma anche egocentriche, bugiarde, indolenti, viziate. Mondi in cui gli uomini non esistono, così come non esistono gli adulti. Mondi in cui le sostanze non sono né puro edonismo, né espressione di marginalizzazione sociale - ma una dimensione personale e oscura in cui si formano relazioni, alcune effimere, altre indissolubili. Poi ho creduto che avrei potuto provare a girarlo, questo film. Un film in cui dire la dipendenza come uno snodo critico della vita, che insieme distrugge e regala una diversa conoscenza di sé, dell’amicizia, dell’amore - linfe vitali anche quando finiscono. E un film che cerca di raccontare la morte senza raccontare la malattia, come la fine di un’epoca, come per dire: visto che la morte esiste, abbiamo fatto bene a vivere. Ma più di tutto, ho pensato che sarebbe stato bello mettere in scena l’importanza del racconto stesso: scrivere un diario, scrivere sui post-it, scrivere sui muri, narrare. E reinventare la propria storia.
Sara Petraglia