Note di regia e di sceneggiatura de "L'Isola degli Idealisti"
Dal romanzo al film
Il film è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Scerbanenco, documentato, ma andato perduto, poi ritrovato dai figli, e infine pubblicato, per la prima volta, nel 2018 da La Nave di Teseo. Scerbanenco scrisse “L’isola degli idealisti” probabilmente tra il 1942 e il 1943, durante il soggiorno all’albergo Toledo, a Iseo, dove si era rifugiato, prima dell’esilio in Svizzera. Doveva essere serializzato sulle pagine del Corriere della Sera. Ma ciò non avvenne, probabilmente per l’inasprirsi del conflitto, e per la partenza dello scrittore per la Svizzera. Il romanzo è dunque ambientato negli anni ’40. Abbiamo voluto spostare in avanti l’ambientazione del film, senza connotazioni precise, direi in un tempo sospeso, identificabile solo attraverso citazioni, dunque ad un secondo, ulteriore, livello di riflessione: opere d’arte, libri, giornali, riviste (un numero di Linus del gennaio ‘70, appena percepito), vestiti, film, oggetti. Rimarco la presenza delle opere d’arte in scena: da Adolfo Wildt a Enrico Baj, da Cagnaccio di San Pietro a Valerio Adami, da Apollodoro di Porcia a Irolli e Favai, da Magatti a Lamb, alle ceramiche di Tosalli a Cosmo Sallustio (gentili concessioni per lo più della Collezione Cavallini Sgarbi e della mia Fondazione, oltre che di privati e galleristi), nella precisa convinzione (mia, ma anche dei Reffi) che le opere d’arte, mentre indicano un tempo, lo sospendono. Stanno e non stanno nel tempo. Catturano l’occhio, per destinarlo, poi, a una dimensione diversa. Di questi percorsi artistici fanno parte anche quelli iper contemporanei: i disegni di Giovanni Iudice (artista di Gela) che sono nella finzione opera di Guido (una scoperta, Renato De Simone); e la mappa / disegno di Manuele Fior (che ha anche disegnato i titoli di testa). Le opere d’arte identificano anche i luoghi abitati dai personaggi (anche grazie al costante dialogo con Monica Sallustio, la scenografa): la modernità è per lo più riservata alle camere dei due ladri nel piano ammezzato; i Reffi vivono spazi con opere più antiche. Una battuta espunta di Celestino a Beatrice recitava: “Mia sorella Carla ripone in quelle stanze il suo bisogno di modernità.” Un tempo sospeso e molto concreto, dunque, ma anche un luogo sospeso: i luoghi del romanzo (il lago di Iseo e Milano), sono diventati, nel film, luoghi innominati, remoti, identificati solo con “Villa Reffi”, “Il Ginestrin”, “il Mare”, “l’Isola”, “il Paese”.
I Luoghi
Nel film ci sono due mondi che interagiscono, si contrappongono, e sono infine costretti a parlarsi: il mondo dell’Isola, di Villa Reffi (dove vivono i suoi molteplici abitanti e il cane Pangloss) e il mondo esterno, che invade progressivamente il fragile equilibrio dei Reffi: i due ladri, il Commissario Càrrua, il farabutto Monsiu’. Il film muove, dunque, dal racconto di uno dei personaggi principali: Villa Reffi (Villa che ha guidato sin dall’inizio la costruzione e la scrittura del film): il suo parco, la casa del cane Pangloss, i suoi sotterranei, il suo affaccio sull’acqua e la sua propaggine sulla terra ferma. La Villa Reffi della realtà è una splendida “Delizia Estense”, una Villa che fa parte della mia storia di adolescente, oggetto di altri miei film, che andavo spesso a visitare con mia madre. Restituire dunque gli spazi (che agiscono nella storia proprio come un personaggio) e la interazione degli attori tra loro, e tra loro e lo spazio, è stata una costante preoccupazione per costruire questo gruppo di famiglia in interni. Abbiamo fatto largo uso del grandangolo (soprattutto 15 mm e 25mm) nei campi larghi, e del teleobiettivo (75mm e 100mm) nei primi e primissimi piani, per consentire un passaggio continuo dal macro al micro, dal generale al particolare, dallo spazio all’ emozione sul volto di un attore. Camere per lo più fisse, rari movimenti avvolgenti su carrelli, per raccontare il luogo e, insieme, il cambiamento di una emozione dell’attore all’interno di una scena. Nel fitto dialogo tra lo spazio e gli attori, un elemento di particolare importanza è la presenza degli specchi. La Villa ne aveva in abbondanza, inamovibili, antichi, velati dal tempo: e io ho rafforzato questa presenza. Gli specchi sono un ulteriore punto di vista, che sdoppia ma allo stesso tempo circoscrive i personaggi creando così dei veri e propri quadri nei quadri. Gli specchi moltiplicano lo spazio, ma sono anche l’occhio conclusivo della scena. C’è spesso uno sguardo/quinta che spia la scena. (Quasi) tutti spiano (quasi) tutti nella casa, implicitamente e esplicitamente, per dovere o per curiosità. Lo specchio è l’occhio che guarda la scena e la avvolge.
Il rapporto con gli attori
I personaggi de “L’Isola degli Idealisti” sono nati e si sono sviluppati, per lo più, già con il volto di chi li avrebbe interpretati, il loro corpo, i loro modi. Prima che ci fossero il film e la produzione, c’erano gli attori (nella nostra mente, a loro insaputa, al buio). Questo ci ha aiutato molto nello scrivere il film, perché, laddove la sceneggiatura non poteva e non doveva dire, potevamo immaginare un colpo d’occhio, un movimento, un gesto, una espressione che riempissero quel “vuoto”. Ma, soprattutto, a molti di loro - con cui ho una consuetudine, una storia, anche cinematografica - potevo dire (certa che non sarei stata fraintesa) di non sentirsi al sicuro, protetti da una storia: perché loro sarebbero stati la storia, la loro faccia, le loro mani, le loro parole. Ho ripetuto loro più volte che sarebbe stato il film degli attori. Dunque potevano forzare, marcare l’espressione e il gesto, varcare anche i limiti della naturalezza. Ecco, anzi: la naturalezza potevano anche sospenderla. Non mi interessava granché. Al contrario mi interessava di più l’artificio, inteso come una accensione dell’interpretazione, una sottolineatura della capacità attoriale, nata, certamente, da una profonda interiorizzazione del personaggio. È stato molto lungo il tempo di preparazione, ripetute le letture insieme, prima delle riprese. Era importante che gli attori si conoscessero, oltre a conoscere bene il proprio personaggio: perché il film è fortemente corale, le singole storie interagiscono tra loro, si modificano l’una con l’altra. Non esistono storie laterali, tutte premono verso un centro. Ed è la relazione tra i personaggi il centro della storia. A volte i personaggi parlano con una lingua scritta, come un libro stampato. La citazione colta (che sta nel dna dei Reffi, come i quadri appesi alle loro pareti) e il dialogo corrente si amalgamano, si dissimulano l’un nell’altro, senza scalini significativi, in una lingua vagamente artificiale. Benissimo: i Reffi sono stranieri al mondo, non parlano lo stesso dialetto del mondo. Non dovevano pensare di vivere nella realtà. O meglio, la realtà, per loro, inizia oltre l’Isola. Quella dei Reffi non è la realtà ma un teorema della realtà. Loro, prima di tutti, sono “gli Idealisti”. L’isola delle Ginestre, dove è situata Villa Reffi, è il segno tangibile della separazione dal mondo. La prima scena, preceduta da un Vivaldi interpretato dal violino ruvido, gitano del violinista armeno libanese Ara Malikian, determina il tono emotivo del film: i due ladri vengono portati dal guardiano Giovanni (Tony Laudadio) nel grande salone della Villa, vuoto. Loro hanno un progetto. Ma la Villa inizia a “stringersi” intorno a loro. E i Reffi, che scendono uno dopo l’altro i due scaloni, iniziano il loro abbraccio fatale, con eleganza, con ironia, con leggerezza, con un certo piacere attoriale, teatrale. (In fondo è questo che Beatrice rimprovera a Celestino). Lo scarto tra normalità e follia, tra osservanza e trasgressione, tra serietà e ironia, è in mano agli attori, in particolare modo ai membri della famiglia Reffi. Sta alla loro recitazione l’onere di tingere di una sottile, ironica e elegante follia gli ampi spazi vuoti della casa. C’era il rischio che il vuoto della Villa, e della pianura e della laguna diventassero “malinconia”. Gli attori arginano, in ogni modo, questo (mio, personale) rischio nell’interpretare i luoghi padani. Doveva essere un film più concentrato sulla esplosione di dinamiche psicologiche interne a una famiglia isolata dal mondo, in cui anche i luoghi venissero piegati alle anime inquiete di questi, in diverso modo, idealisti.
Elisabetta Sgarbi
Eugenio Lio