Sinossi *:
La rivoluzione è sempre tre quarti fantasia e per un quarto realtà. Lo diceva Bakunin. E quel quarto, è quello che non è pranzo di gala né fucilazioni, che è fatto di singole vite alla ricerca della felicità e dell’incontro di queste vite, spesso, con delusioni brucianti.

Per gli ucraini, la rivoluzione del 2014 non è stata solo la cacciata di un presidente fantoccio e corrotto, Yanukovich, e l’inizio di una guerra civile tra est e ovest del paese. C’è stato anche l’esperimento sociale di Maidan, a Kiev, una piazza che è sopravvissuta agli spari, come Tahrir al Cairo, che è diventata centro e simbolo di un’ Ucraina diversa, una comune sgangherata, ma piena di speranza, di divise improvvisate, famiglie allargate e di musica suonata su pianoforti in mezzo ai copertoni delle barricate.

C’è stata, e c’è ancora, la rivoluzione di migliaia di donne che lasciano a Kiev come a Odessa le loro famiglie per accudire le nostre, a migliaia di chilometri di distanza. E dei loro figli, che sognano l’Europa e si arrangiano senza madri.

Ogni domenica, un bus attraversa l’Europa per riportare a casa le donne ucraine con i loro borsoni e le loro vite impacchettate. Sono le loro vite, a scorrere con i chilometri dal finestrino: i figli e i mariti lasciati a casa, i genitori che muoiono, i soldi che non bastano mai. Sono le loro voci, nel documentario, quelle di Olga e Irina, che accompagnano il viaggiatore. Sino a Kiev, al centro della rivoluzione, Maidan.

A parlare sono sempre e solo loro: soldati di eserciti improvvisati, pianisti che suonano tra le macerie l’inno della rivoluzione, giovani uomini e donne che si accorgono già del tradimento di ciò per cui altri hanno combattuto e sono morti.

Vediamo lo stupore negli occhi delle famiglie che varcano il cancello della lussuosa residenza invernale di Yanukovich, in un tripudio di selfie. La poesia della musica che viola il silenzio dei palazzi del potere. Ma vediamo anche un processo sommario a due omosessuali, il caos di falangi di “guardiani della rivoluzione” e “comitati di autodifesa” che si autointestano l’ordine di un paese nel caos.

Il poliziotto che ha abbandonato la divisa corrotta, la ragazza che sogna un lavoro e una vita “normale”, i profughi della Crimea che non vogliono morire russi.

Tutto questo ce lo raccontano Olga, Kyrilo, Liubov, Valentin. Nomi e volti umani, persone alla ricerca di una felicità che non ha niente a che fare con Merkel o Putin o Poroshenko. E ci ricordano che ad Est come a Sud della nostra Italia, ci sono persone pronte a morire, per guadagnarsi un pezzo di quell’ Europa che hanno sognato nei loro tre quarti di fantasia, al suono dell’inno alla gioia.

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