Note di regia del film Vedi Napoli e poi Muori
Dopo la caduta del comunismo, i capi dei capi della mafia siciliana e americana, dei narcos colombiani, delle triadi cinesi, della Yakuza e della nascente mafia russa si incontrano sull’isola di Aruba, a poche miglia dalle coste del Venezuela. Lì, tra aragoste e bottiglie di Veuve Clicquot Ponsardin, tiri di coca rosa e prostitute d’ogni colore, danno vita al più formidabile sindacato del crimine mai visto sulla faccia del pianeta Terra. Per effetto di questo accordo, dall’Asia si abbatte sulle Americhe uno tsunami di eroina e dalle Americhe un uragano di cocaina travolge l’Europa. Onde anomale di denaro sporco si abbattono sull’ex Unione Sovietica portando via materie prime, imprese, immobili e belle donne.
Veicolati da neoliberismo e globalizzazione, questi fiumi di narcosoldi ripuliti, affluiscono in ultima battuta alle economie dei paesi più sviluppati.
Già, così stanno le cose: il G6 delle organizzazioni mafiose più potenti del mondo inquina le borse finanziarie di Nazioni tra le più importanti del G8, come Giappone e Stati Uniti d’America, quando non direttamente la vita politica come nel caso della Russia e dell’Italia.
La ricaduta del fenomeno globale sulle organizzazioni regionali ha l’effetto di innalzarle a livelli di onnipotenza inimmaginabili fino a poco tempo prima. In Turchia come in Venezuela, in Corea come in Ucraina, in Albania come in Equador.
E in Campania.
Già, perché è in questo contesto che va valutata l’attività di un’organizzazione criminale locale come la camorra napoletana. Cos’è oggi la camorra che, per dirne una, nel solo rione Scampia sviluppa ed alimenta col narcotraffico un giro di 16 miliardi di euro all’anno? Un’associazione verticistica? Un cartello di clan familiari? Una mera accozzaglia di bande senza né capo né coda?
Fino a trent’anni fa la camorra operava su un territorio dalla geografia decifrabile e regnava tutto sommato in santa pace. Una decina di grandi famiglie, ognuna ben radicata sul suo territorio, si divideva la città e, a parte qualche scaramuccia saltuaria per stabilire i confini, ogni clan si occupava soltanto della sua “specializzazione” e del suo quartiere. Le loro vittime potevano quantomeno contare sulla presenza di regole chiare e la microcriminalità era sotto ferreo controllo. Ma oggi?
La trasformazione delle nuove periferie in fortini della camorra e piazze della droga ha ridisegnato i contorni e riassegnato i ruoli nel mondo della malavita partenopea. Ora le cose stanno così: la cupola, ben accasata nel centro storico o sulle colline residenziali, ha ormai abbandonato alcuni settori del crimine classico, appaltandoli ai micro gruppi periferici. In tal modo le famiglie storiche, quelle - per intenderci - in contatto diretto con la mafia siciliana, controllano solo da lontano l’enorme traffico di droga, evitando però di sporcarsi le mani occupandosi di spaccio e reati annessi. I grandi boss vestono in giacca e cravatta, gestiscono imprese pulite, intraprendono commerci alla luce del sole e si circondano di professionisti rispettabili; i loro figli vanno all’università le loro mogli giocano a carte nei circoli più esclusivi. I loro capitali si moltiplicano in Italia e all’Estero: Spagna, Germania, Regno Unito, Albania e paesi dell’est. Mentre il controllo del territorio, un tempo applicato in maniera maniacale, passa in secondo piano. Sì, i grandi boss hanno la presunzione di poter lasciare mano libera ai “guaglioni” sulle operazioni sporche, che prima controllavano direttamente. E la disorganizzazione, tra i clan di secondo e terzo piano, regna sovrana.
Immaginate questa scena: un pomeriggio qualsiasi, quattro persone si incontrano al bar e, dopo aver consumato l’aperitivo, decidono di taglieggiarlo. Il barista, incredulo, cerca di convincere gli aggressori che è già stato taglieggiato quella stessa mattina da un altro gruppo ma l’uso delle droghe sintetiche inebetisce i quattro impedendogli di ragionare. Così, una parola tira l’altra, si finisce per accoppare il barista. Ma la gente mormora e il gruppo che la mattina aveva già taglieggiato il barista deve difendere il proprio prestigio.
Si apre una faida tra il due clan.
C’è, però, un piccolo problema: quelli della mattina si sono scissi e anche quelli del pomeriggio ci sono molto vicini. Così, al tramonto, sono tutti contro tutti. E’ una catena difficilmente comprensibile. Ma è un po’ così che va. Oggi le zone della città vengono controllate in modo trasversale e ogni gruppo si specializza: droga, imprese funebri, costruzioni, pizzo, strozzinaggio, riciclaggio dei rifiuti. Ma poi ci si spacca e si spacca ogni accordo; così chiunque sia disposto a sparare in faccia a qualcun altro per il controllo di una zona, o più banalmente di una o due strade in deficit di manutenzione, può cullare il sogno di diventare un assassino di successo. E un giorno chissà, diventare ricco come i boss in giacca e cravatta che stanno di casa al Vomero o sulla collina di Posillipo. Irrompono così sulla scena i killer più pericolosi che Napoli abbia mai visto, consumati da stupefacenti nuovi e sconosciuti, oltre che da un’ignoranza oscura e torva. Sono ragazzi bruciati, fulminati, senza un clan d’appartenenza e quindi incontrollabili.
Perché non gliene fotte niente di morire o di essere arrestati: sono convinti che la vita, tanto la loro che quella degli altri, non valga una mazza.
Siamo a un punto di non ritorno? Con mafia e camorra ci dobbiamo per forza convivere, come auspicava il Ministro ai Lavori Pubblici del governo Berlusconi? “Vedi Napoli e poi muori”: chi ha coniato questo detto voleva semplicemente intendere che non si può morire appagati senza aver prima visto la nostra città. Insomma, una cosa bella. Eppure la perentorietà del verbo morire coniugato al presente in seconda persona, ne fa un proverbio dal sapore vagamente jettatorio; mettetevi nei panni d’un viaggiatore scaramantico, magari già un po’ acciaccato di suo, al cui orecchio arrivi questo motto… non ci pensereste due volte prima di mettere in programma la tappa napoletana? E poi, come la mettiamo con i nativi?
L’indubbio privilegio di godere ogni mattina della vista di Capri e Sorrento, Vesuvio e Castel dell’Ovo, derubrica forse un obiettivo universalmente condiviso come quello della longevità?
Allora meglio sarebbe dire: “vedi Napoli e, da qui a mille anni, quando indipendentemente dal fatto di averla visitata scoccherà la tua ora, potrai passare a miglior vita senza rimpianti, avendo già vissuto l’esperienza che maggiormente ha arricchito la tua vita.“
Magari è un po’ lungo, ma coi tempi che corrono meglio non prestare il fianco ad interpretazioni sibilline. Sì, perché dagli anni d’oro del “rinascimento bassoliniano”, con le sue piazze ripulite e i suoi monumenti restaurati finalmente meta di un turismo ritrovato, si è passati ai mesi di piombo della guerra aperta tra narcos che si sparano per strada in pieno giorno.
Muoiono camorristi, muoiono passanti, muoiono giovani killer imbottiti di coca e muoiono vecchi e donne a loro lontanamente imparentati. I riflettori delle tv di mezzo mondo si accendono su Secondigliano, Melito, Scampia e nel frullatore di titoli macabri e immagini di sangue, lo sporco dei carnefici lorda anche le vittime. Napoli è percepita come un inferno abitato da demoni camorristi e dannati che adorano i loro forconi appuntiti.
E’ in fondo anche il giudizio di uno dei massimi giornalisti italiani, ex partigiano di Cuneo e uomo di sinistra, Giorgio Bocca, che in un’intervista concessa a “Il Mattino” nell’ottobre del 2005, accusa senza mezzi termini: “c’è una cultura napoletana complice del modo camorristico di ragionare.”
Così stanno le cose?
La reazione dei napoletani a questo genere di accuse è, di volta in volta, garbata come quella dello scrittore La Capria, che da anziano gentiluomo invita il collega Bocca a essere meno severo, oppure iconoclasta come quella del ruspante Gigi D’Alessio, il cantante di vicolo approdato nel salotto buono della musica italiana, che in un’affollata conferenza stampa impugna una copia de “L’Espresso” del 22 settembre 2005 – in copertina, in rosso e a caratteri cubitali, il titolo “Napoli addio, criminalità, disoccupazione, disagio giovanile” – e si fa fotografare mentre lo riduce in mille pezzi.
Già, perchè il calo d’immagine fa scappare turisti e investitori per cui a Napoli cresce il numero di intellettuali, politici ed artisti che sulla camorra volentieri stenderebbero un velo pietoso. Ma è il calo d’immagine a far danno o piuttosto la realtà vissuta in prima persona? Il fenomeno criminale è inarrestabile perchè i napoletani ci convivono volentieri oppure, obtorto collo, ci convivono perchè è inarrestabile?
Eccoci qua: tra l’incudine e il martello.
Il genetista di fama internazionale Andrea Ballabio, è tornato dagli Usa nella sua città natale nel 1994, in pieno rinascimento napoletano. Oggi ha una sede ampia e spaziosa dove può lavorare al meglio con il suo staff di 150 ricercatori. In questi anni a Napoli ha attirato molti finanziamenti stranieri, fatto numerose scoperte e reclutato giovani di talento dall’Italia e dall’Estero. “Ormai ho difficoltà” – dice – a reclutare nuovi ricercatori, perchè dopo i primi colloqui se ne tornano al loro Paese impauriti dalla qualità della vita in città.”
Quanto tempo ancora resterà lo stesso professor Ballabio in una città tanto saldamente serrata tra le grinfie della malavita, dove il controllo della camorra su ogni aspetto della vita civile, dalla culla alla tomba, è tanto meticoloso ed oppressivo?
Enrico Caria