Note di regia del documentario "99 Amaranto"
Ho conosciuto Cristiano le prime volte sulle pagine dei giornali, quando le parole di un calciatore che dedicava i gol a operai cassaintegrati suonavano in dissonanza rispetto ai comuni e immancabili riferimenti a fidanzate e allenatori, per il compiacimento di un calcio conformista e appiattito su parametri da quieto vivere.
L’idea di voler indossare a tutti i costi la maglia della propria città mi era peraltro suonata familiare ad un certo modo di intendere il calcio: quello del bambino della nostra comune generazione che negli anni settanta giocava per strada sognandosi sulla pelle una maglia (viola la mia, amaranto la sua) mai vincente e forse anche per questo più stretta addosso, e più entravo a contatto con la sua storia, attraverso il libro di Carlo Pallavicino, più mi sembrava di leggere un racconto fantastico di Osvaldo Soriano o per l’appunto, di Edoardo Galeano cui ho preso in prestito una citazione che ben si adatta al personaggio.
Ho incontrato le Brigate Autonome Livornesi a Genova, nel 2001 durante le manifestazioni contro il G8, e da lÏ ho sempre stimato la loro presa di posizione politica e sociale nell’andare oltre la semplificazione di una partita di calcio.
Ho sempre subito - da fiorentino - il fascino di Livorno, di una città che mi pareva aver mantenuto una certa schiettezza popolare diversamente da Firenze, sempre più edulcorata dall’invasione del turismo di massa.
Da tutto questo, Ë nato il progetto di questo film documentario.
Non Ë stato facile. Non volevo fare un documentario sportivo ma cercavo di andare a raccontare una (fantastica) storia che si radicava profondamente nello spirtito - meglio nei differenti spiriti - di una città.
Da una parte sentivo il limite di non essere nella mia città, ma dall’altra i miei interrogativi e i miei punti di vista potevano essre quelli di qualunque altro che fuori da Livorno si ponesse in contatto con questa storia.
Il risultato è un anno e mezzo di lavoro, un mese di riprese e 60 ore di girato, tantissimi viaggi a Livorno e innumerevoli notti in sala montaggio a cercare insieme all’insostituibile montatore Yuri Parrettini, i modi di raccontare tutto senza voce fuori campo, senza didascalie, lasciando ai personaggi il filo di una storia che sa di autentico e, per una volta, di non mercificato.
Federico Micali