Note di regia del film "Valzer"
Oggi il potere si autorappresenta come gli conviene e in questo sta tutta la sua forza, non deve comunicare niente, nessun contenuto diverso dalla virtualità che si è scelto, dalla parola vuota con cui parla. La stessa virtualità che intrappola e altera ogni tentativo di aggregazione mentale.
Può accadere ad esempio che a usare più di ogni altro la parola valore siano i personaggi pubblici sospettati dei comportamenti più riprovevoli. Ma possono farlo perché hanno la certezza che nessuno cercherà di dare un contenuto a quella parola, né tanto meno di riconoscere la contraddizione tra il significato della parola e le azioni contrarie ad essa commesse da chi parla.
E’ la forma peggiore di dominazione mai concepita nella storia dell’umanità, la parola detta-rappresentata dai media non ha più nessun legame col suo contenuto ma esiste solo per il valore emotivo che le conferisce il mezzo.
Sulla base di una menzogna si può legittimare una guerra nell’epoca delle democrazie mediatiche.
Il nuovo cittadino si avvia a diventare soprattutto un nuovo suddito, allevato nella violenza del quotidiano, mal pagato ma ipernutrito di consumi squallidi. E’ un suddito triste, che si eccita solo nella ripetizione di piccoli eccessi, una povera persona espropriata di ogni forma di immaginazione e di vita spirituale.
Volevo dare forma a tutto questo, raccontare di una ragazza, che a tutto questo, nella materialità della sua vita e dei suoi affetti, cerca di opporsi e di strappare una sua compagna di lavoro al definitivo scivolamento nell’oblio di sé.
La necessità della narrazione come flusso continuo non mi è venuta curiosamente dal cinema ma da una esperienza architettonica. M’è tornato alla mente, come un motivo musicale prima perduto e poi ritrovato, lo stupore suscitato in me dalla visita dei due capolavori di Via Venti Settembre a Roma: due chiese distanti poche decine di metri del Bernini e del Borromini. La prima riproduce i paradigmi classici, pensata per essere guardata, contemplata, ammirata, costruita per essere appresa nella sua meravigliosa interezza da chi entra dalla strada. La seconda invece schiacciata nell’angolo di uno stretto quadrivio; per vederne la facciata bisogna mettersi sul marciapiede opposto e alzare la testa. Chiesa sfuggente che all’interno non si offre, ma che dipana e mostra le sue strutture man mano che ci si inoltra in essa. Non c’è un punto privilegiato di osservazione, si snoda sui passi di chi la guarda, ed è difficile apprenderla nel suo insieme perché è pensata per essere percorsa. Un saggio famoso suggeriva questa differenza e il verificarla non era stato privo di emozione.
Ho pensato al piano sequenza come a quel prodigio costruttivo che rende dinamica una struttura in pietra. E ho immaginato un luogo unico, l’ albergo del mio film, dove lo spazio architettonico diventa emotivo, il cinema originario ha il potere di umanizzare il cemento, di impregnarlo delle storie dei personaggi.
Le pareti che scorrono nel movimento della cinepresa diventano racconto dell’ansia, le prospettive che continuamente mutano, le stanze che diventano ascensori, gli ascensori che diventano corridoi, i corridoi che diventano stanze, o piscine, o cucine, ristoranti, sottosuolo privo di aperture o cortile pieno di piante, uno spazio dentro l’altro, un luogo come un serpente proteiforme preso in un vortice insensato: questo è diventato l’albergo in cui ha luogo l’intero film nel piano sequenza. Non è un nastro che fa scorrere le immagini che fanno da sfondo all’azione dei personaggi, ma sono i personaggi che lo muovono, che guidano il valzer, poiché in quel movimento cercano qualcosa, un senso di quello che stanno facendo e che probabilmente non troveranno.
Nel film tutto si muove perché nessuno può più fermarsi a riflettere sulla propria identità.
Non esistono immagine vere o immagini false, immagini provviste o prive di senso, perché ogni immagine scivola sull’altra, tutto è fluido in un mondo dove l’immagine è una nebulosa tecnologica che nega i simboli e vanifica i concetti. E’ la perdita del rapporto ottimistico col reale che ho cercato di rappresentare facendo a meno dell’elemento fondamentale del linguaggio cinematografico, cioè il montaggio, il pilastro della simulazione e dell’illusione della continuità, la struttura portante del cinema classico, il regolatore del tempo e del ritmo.
Il piano sequenza, il mio piano sequenza, è diventato così la forma dello smarrimento. Siamo abituati a considerare il tempo della finzione come un elemento della storia, del soggetto, e non a metterlo in relazione con la durata della rappresentazione. Questa coincidenza invece è il contrario della percezione automatica e di certezze, la sensazione di vivere in un mondo dove il futuro non è più il tempo delle speranze, non fa che rendere tutto doppio, come la protagonista del film che ha costruito l’unico rapporto autentico della sua vita attraverso una doppia finzione: ha preso l’identità di un’altra persona, ma la storia che ha vissuto in questo involucro è quella vera che le appartiene, ma per poterlo vivere questo rapporto, ha dovuto prima scriverlo, cioè conservare con la parola segreta e scritta la memoria dell’esperienza.
In altre parole è stata costretta a scrivere se stessa per certificare la propria esistenza. Se l’insieme di questo procedimento diventa efficace, il piano sequenza produce un effetto analogo a quello che nella terapia medica si chiama effetto paradosso, quando un farmaco accentua, invece di eliminare, i disturbi di cui è specifico, cioè la coincidenza del tempo reale col tempo della narrazione diventa il massimo dell’astrazione.
Salvatore Maira