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Note di regia del documentario "Civico 0"


Note di regia del documentario
Massimo Ranieri e Citto Maselli
Il documentario nella mia vita professionale e politica
Dopo i due film sperimentali girati nel millenovecentoquarantacinque a passo nove e mezzo e otto millimetri nella scia surrealista dell’avanguardia francese - che per mia fortuna sono andati perduti - arrivano le due esperienze cinematografiche più importanti e documentaristiche con “Sezze romano, gli scioperi a rovescio” di cui fui un po’ l’ideatore insieme a Carlo Salinari e Plinio De Martiis, e alla cui realizzazione partecipò attivamente anche Gillo Pontecorvo; e poi il documentario sulla sottoscrizione nazionale per la costruzione della “scuola centrale sindacale” ad Ariccia che fu proiettato solennemente al primo congresso mondiale sindacale del dopoguerra che ebbe luogo a Roma nel giugno del ’48, vale a dire poco dopo lo storico crollo elettorale delle sinistre nel nostro paese. Questo mio mediometraggio (durava quasi mezz’ora) non piacque troppo a Giuseppe Di Vittorio che mi criticò soprattutto per le difficili musiche di Stravinskij che vi avevo voluttuosamente inserito, ma fu per me la prima esperienza completa di regista, operatore e montatore compiuta in un’epoca in cui l’unico stabilimento dov’era possibile trattare il suono nel sedici millimetri risiedeva in un sottoscala cui si accedeva traversando un drammatico cortile di via Ottaviano. Per realizzare questo film ricordo che girai un po’ tutta l’Italia dormendo sempre nei corridoi delle case dei compagni sindacalisti e trovandomi a contatto diretto con il grande e contraddittorio lavoro di ricostruzione e insieme di lotta vissuto nelle realtà operaie di quell’epoca. Nei nove mesi della Resistenza romana e poi nella vita del partito comunista romano mi ero trovato già a confrontare la mia formazione borghese con la drammaticità delle condizioni che si vivevano nelle borgate o nei quartieri dove il partito ci mandava a farci le ossa, ma l’amore e direi la passione per la documentazione cinematografica della realtà credo mi nasca da quella sorta di lungo reportage che svolsi nell’inverno tra il ’47 e il ’48 mentre continuavo faticosamente a frequentare il mio primo anno di Centro Sperimentale di Cinematografia.
Tutto questo per dire delle mie radici nel documentario italiano. Che sviluppai in termini più professionali quando Andreotti s’inventò quell’intelligente legge dove a ogni film che si proiettava nelle sale doveva abbinarsi un documentario di dieci minuti cui spettava il tre per cento dell’incasso totale del film. Tutta la nuova generazione del cinema italiano nasce con quella legge: da Antonioni a Risi, da Comencini a Zurlini, De Seta, Lizzani, Vancini. E tanti altri. All’epoca di quella legge io ricordo che portai avanti, sviluppandola, quella linea del realismo lirico che era stata indirettamente proposta nell’inverno del ’48 da “N.U.” di Antonioni. Lui parlava degli spazzini io proseguii con le fioraie ambulanti, gli ombrellai, gli stracciaroli e i bambini di strada. Erano immagini fortemente significative unite da un montaggio completamente poetico e da una musica che era il vero e fondamentale filo conduttore. Ed era in questi termini fortissimi - quanto volutamente indiretti, mai didascalici - che concretizzavamo l’espressione della denuncia sociale che ci premeva. Queste erano, ricordo, le mie teorizzazioni di allora, ma oggi mi rendo conto che a quello stile contribuivano anche alcuni condizionamenti pratici. Prima di tutto il suono: non esisteva, allora, nessunapossibilità di ripresa sonora in sincrono con l’immagine: nel senso che per realizzarla serviva tutta l’apparecchiatura dei film di lungometraggio che comportava un minimo di quattro tecnici, un camion e chilometri di pellicola sonora che poi andava sviluppata e stampata. Ricordo che costava di più un giorno di ripresa sonora sincrona che un intero documentario. Pensando alla facilità della ripresa sonora che si ha oggi con la più piccola delle telecamere mi rendo conto che fu probabilmente anche per questo che senza rendercene conto sviluppammo quell’idea del montaggio per musica e immagini che voleva dire essenzialmente denuncia come paesaggio tragico di una realtà sociale. E tanto ci eravamo immersi in quel tipo di linguaggio che anche dopo che, nel millenovecentocinquantacinque, venne fuori dalla Norvegia l’apparecchio portatile Majac che incideva su nastro in una non meglio identificata “frequenza pilota” – c’era scritto solo “pilot” accanto a un foro - sincronizzata con la macchina da presa, continuammo in tanti a evitare la ripresa diretta delle voci. Anche perché intanto era nata anche in Italia la televisione - con la sua pratica delle interviste sul campo - che considerammo subito un po’ tutti come cosa assolutamente “altra” dal cinema.
Sono 27 i documentari che realizzai in dieci anni con quella legge, alcuni dei quali risolti linguisticamente con un unico piano sequenza di trecento metri. L’istituto Luce ne ha ritrovati molti ma sono andati irrimediabilmente perduti quelli girati in Sicilia nel ’52, quelli sull’adolescenza e un “città che dorme” girato di notte a Roma con la tecnica della “latensificazione” della pellicola prima dello sviluppo. Torno al documentario più di venti anni dopo ed esattamente nel 1984, ideando per la Cgil un grande documentario collettivo che affrontava il tema lacerante dell’abolizione della scala mobile, cui chiamai a partecipare trentacinque autori italiani. Con il montaggio di Carla Simoncelli e Roberto Perpignani, venne fuori un film di tutto il cinema italiano intitolato “sabato 24 marzo” che fu rifiutato dal festival veneziano ma ebbe una proiezione immensa in un campo cittadino alla presenza di Luciano Lama e di tutta la stampa nazionale.
Diciamo pure che la passione per il documentario mi aveva ripreso. Al punto che dopo alcune altre esperienze collettive, quando si annunciò il social forum di Genova nel primo anno dell’era Berlusconi, creai con Mauro Berardi e Stefania Brai la fondazione “cinema nel presente” che raccoglieva trentun registi italiani dai più anziani Monicelli Pontecorvo e Scola fino ai più giovani Scimeca e Labate con trentuno “troupes” complete di tecnici volontari e il sostegno della film commission della Liguria. Ne nacquero due film distribuiti da “l’espresso” e da “L’unità” e poi trasmessi dalla terza rete Rai, cui fecero seguito altri 11 film collettivi tra i quali due sui socialforum di Porto Alegre e Firenze, il bellissimo “Carlo Giuliani ragazzo” ideato e diretto da Francesca Comencini e proiettato a Cannes, e le “lettere dalla Palestina” girato da Wilma Labate – che ne ha curato anche il montaggio - Monicelli, Scola e tanti altri fra i trentatré della nostra fondazione.
Si tratta di classici film politici - sulla scia di quelli di Ioris Ivens, Pino Adriano e Virginia Onorato che organizzai nel ’71-’72 con un gruppo autonomo dell’associazione degli autori (Anac) allora presieduta da Pierpaolo Pasolini - che mi hanno tuttavia quasi inconsapevolmente portato a riconsiderare, oggi, la forza indiretta di denuncia che aveva quel montaggio per immagini che più di mezzo secolo fa definivo “realismo lirico”.
Perché in realtà è questo lo spirito con cui ho affrontato “civico zero”. Sul lavoro intenso e straordinario condotto da Gioia Benelli e Susanna Capristo con cento interviste-documento che rappresentavano a tutti i livelli le nuove povertà metropolitane di una città-simbolo com’è Roma, ho estratto tre storie specifiche raccontate attraverso tre ricostruzioni narrative. Ma immergendole in un contesto generale che ho cercato di rendere tanto più significante, universale e tragico quanto più espresso per sole immagini, montaggio e musica. In altre parole quanto di più lontano dall’inchiesta televisiva e dal suo linguaggio, e tanto più vicino al cinema-cinema delle grandi scuole documentaristiche europee. Insomma Flaherty e Ivens come riferimenti insieme all’apporto creativo di Angelo Talocci per la musica e Olivia Orlando per il montaggio. E alla base di tutto l’aiuto che mi ha dato l’umanità e l’intelligenza di Federico Bonadonna con il suo “In nome del barbone” e quel suo modo di analizzare e vivere una condizione umana atroce e inaccettabile.

Un riferimento al millenovecentocinquantatrè
Per chi s’interessa di questi temi può essere di qualche utilità sapere una cosa relativa alla scelta di attori professionisti che ho voluto per interpretare i tre episodi di vita reale presenti in “civico zero”. Cinquantaquattro anni fa compii con Zavattini un’operazione che venne pesantemente attaccata da tutta una parte della stampa. Si trattava dell’episodio “storia di Caterina” nel film “amore in città” che segnò il mio debutto alla regia narrativa e che ricostruiva, esattamente come ho fatto oggi nei tre episodi di “civico zero”, un fatto di cronaca realmente avvenuto. Era il 1953, cioè a dire il massimo dell’attacco portato al neorealismo dai governi di allora e la nostra decisione di far interpretare dalla protagonista reale l’episodio della domestica palermitana che aveva abbandonato il suo bambino in un prato per disperazione per cui era stata condannata sollevando una grande ondata di pubblica indignazione, venne criticata in termini soprattutto morali: far rivivere ad un individuo un episodio tragico della sua vita davanti ad una macchina da presa venne considerato da alcuni una sorta di crudeltà gratuita ed effettistica. Ci furono articoli di fondo contro di noi e noi rispondemmo fieramente che la nostra scelta era dettata dall’esigenza di massima verità e che se un effetto poteva avere sulla protagonista reale del fatto, esso non poteva che essere positivo: una maggiore presa di coscienza di quanto aveva precedentemente vissuto. Oggi, cioè mezzo secolo dopo, senza accorgermene, mi sono trovato per Civico zero a sposare completamente le tesi che avevamo combattuto con tanto accanimento. Già, perché nemmeno per un attimo ho pensato giusto e possibile far rivivere i tre episodi che avevo scelto dai loro protagonisti veri.

Il film
Il film è girato a Roma e dunque verrebbe naturale spiegare qui che nella nostra città ci sono 10.000 senza fissa dimora e 2.000 barboni. Ma questi dati in realtà non ci interessano affatto: Roma ci serve esclusivamente come simbolo per un discorso più generale che riguarda i processi di globalizzazione liberista che stanno letteralmente distruggendo le esistenze di milioni e miliardi di esseri umani. Le immagini tragiche di individui e detriti che produce una grande città occidentale ci parlano di un problema più grande e profondo.

Il suo perchè
Io parto dal rifiuto più drastico della povertà come condizione fatale, esistenziale. Keynes ci aveva spiegato che uno sviluppo intelligente di una società moderna si basa sull’eliminazione graduale e sistematica delle povertà e Hobsbawm ci ha illuminato sulla natura dei processi mortali che sono in corso. Io sono voluto partire dai risultati già visibili di questi processi: che sono la tragedia di un’ immigrazione senza sbocchi, il sempre più frequente nutrirsi dai cassonetti l’insieme delle nuove povertà, dei lavavetri, dei vecchi senza rifugio e senza speranza. Per dire basta, per aiutare, seppure nelle misure infinitesimali di un film, la conoscenza e la coscienza di tutto quanto ci vive silenziosamente accanto.

Come nasce il progetto
Da un articolo scritto anni fa da Luigi Pintor di cui mi sono trovato a scrivere anche altre volte. Si raccontava, in quel suo pezzo, dei meccanismi migratori e di tutte le nuove planetarie disperazioni messe in moto da una globalizzazione radicata e motivata nelle ragioni esclusive dell’economia e del profitto. Si concludeva, quel testo, con queste parole: “…tutto questo andrà e andrà ancora avanti, finchè la terra tremerà di nuovo sotto i nostri ben calzati piedi”. Poi c’è stato “in nome del barbone” scritto con infinita passione da Federico Bonadonna. C’è anche lì un capoverso carico di significati. Dove dice: “… pensate di trovarvi per strada senza sapere dove andare perché non avete più un posto dove andare: né una casa, né un amico, né un parente, niente. Il modo in cui siete finiti nella condizione di non-ritorno poco importa, certo è che dalla strada non potete andarvene. La strada è il massimo dello spazio a disposizione associata alla minima possibilità di usarlo. Sulla strada i limiti dell’utopia della libertà assoluta emergono violentemente”.

Francesco Maselli