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Daniele Vicari: "Ho scelto il libro di Carofiglio perchè
era contenuta la storia che volevo raccontare"


Abbiamo intervistato Daniele Vicari, regista del film "Il Passato è una Terra Straniera" tratto dall'omonimo libro di Gianrico Carofiglio con Elio Germano e Michele Riondino.


Daniele Vicari:
In seguito alle polemiche nate nei giorni del Festival Internazionale del Cinema di Roma, in merito alla censura del suo film e visto quello che oggi passa in tv, forse il mezzo di comunicazione più vicino ai giovani, ha ancora valore oggi la censura in Italia?
Daniele Vicari: Se lo Stato censura, per qualunque motivo giusto o sbagliato che sia, un film, e fra tre giorni un ragazzo potrà scaricarselo da Internet, qualcuno mi dovrà spiegare a cosa servirà la censura. Detto questo, io sono contrario per principio alla censura: è una battaglia culturale fallimentare mia che porto avanti fin dai tempi in cui facevo il critico cinematografico. Ritengo che i cittadini siano in grado di decidere da soli quale film andare a vedere da soli o meno. Basterebbe fare come in tanti paesi del mondo, in cui si indica nella pubblicità del film se non è adatto ai bambini, così i genitori staranno attenti che i figli non vadano a vederli, così come stanno attenti che non scarichino da Internet foto osè.

Com’è andata l’alchimia con lo sceneggiatore Carofiglio?
Daniele Vicari: E’ andata bene perché Gianrico è una persona capace di muoversi tra diversi generi, non solo letterari, e capisce perfettamente i problemi tra diversi tipi di narrazione. Detto questo, la sceneggiatura è una delle cose più astratte del mondo, perché lo stesso Germano, prendendola in mano, l'ha trasformata secondo le sue esigenze che come attore ha nei confronti della storia. Nel cinema non sono ammessi rigidi menti, ma sono ammesse solo discussioni.

Nelle presentazioni dei due testi, narrativo e cinematografico, si parla di una “discesa negli inferi”. Perché oggi si sceglie di rappresentarla al cinema, in un momento in cui la violenza regna già nel quotidiano?
Daniele Vicari: Il cinema, più di altre forme di spettacolo, sia per i tempi che per il modo in cui viene fatto, permette di guardare in faccia certe questioni che altri media non possono fare nello stesso modo: in TV, ad esempio, ci sono una serie di problemi per cui la violenza va trattata in un certo modo. Nel cinema possiamo trattarla con maggiore libertà. La violenza che gli uomini adottano è comunque un veicolo di comunicazione. Il fatto che gli attori possano giocare a mettere in scena la violenza, ci permette di guardarla dall’esterno e di farne un’analisi più attenta. I personaggi di Riondino e Germano finiscono per fondersi, e la fusione la trovano proprio nella violenza. Questo fa sì che il regista e lo spettatore si chiedano come possa avvenire ciò, e la risposta sta nel fatto che, proprio grazie alla violenza, il protagonista riesca a ritrovare se stesso. In questo senso, non credo che questo film possa dare problemi allo spettatore, ma anzi ne dà forti emozioni.

Perché ha scelto proprio il libro di Carofiglio?
Daniele Vicari: Perché nel libro di Carofiglio era contenuta la storia che volevo raccontare. Io non leggo i libri per farne un film, ma se leggo un film che mi colpisce in qualche modo e ne intravedo la possibilità di farne un film, allora ci rifletto su. Questo non mi capita spesso, ma quando ho letto quello di Gianrico, ne ho trovato degli elementi che mi stanno molto a cuore, è il principale è quello dell’identità. I protagonisti non sanno chi sono, è quindi non sanno come affrontare determinate esperienze in cui si trovano. Il personaggio di Giorgio, ad esempio, si getta in queste esperienze senza freni inibitori, e senza calcolarne le conseguenze: a me questa cosa piace molto perché mi sembra parli del mio presente. Noi abbiamo rotto i ponti con una serie di principi morali che fino a ieri costituivano il nostro modo di stare insieme, e sono quasi cose da superare. Nel libro di Gianrico c’è questo superamento e avviene la creazione di un uomo nuovo, che mi permette di studiare ed analizzare. Mi sono accorto di questo superamento vedendo recitare Michele ed Elio, perché il suddetto superamento aveva un corpo, si muoveva e agiva.

Nella sua carriera ha trattato diversi generi audiovisivi e multimediali, come lo spot televisivo e il documentario estratto dal blog. In cosa non si è ancora sperimentato e vorrebbe fare nel futuro?
Daniele Vicari: Ci sono molte possibilità che il Web e i nuovi DVD danno di intrecciare più storie contemporaneamente. Questo può far si che ci sia un certo grado di interattività tra la storia che racconto e lo spettatore. Ma soprattutto permette di avere più punti di vista su una storia, che il cinema non può permettersi sino in fondo. Esistono il montaggio parallelo o quello alternato che permettono di fare qualcosa di simile, ma non sono la stessa cosa. In fondo è un territorio tutto da sperimentare, che mi ricorda il corpo dell’attore, perché esso e l’attore stesso riescono a passare indenni da uno stato all’altro, da un momento della vita ad un altro. Allo stesso modo, la stessa cosa la si può fare nel Web.

E il Vicari spettatore, oggi, attende il lavoro di qualche autore in particolare?
Daniele Vicari: Oggi a cinema guardo un po’ di tutto, e non faccio delle scelte a priori. Questo l’ho imparato quando facevo il critico cinematografico. Vedo quello che la distribuzione cinematografica mi permette di vedere, e questo già è poco. Non c’è un autore che in particolare attendo, ma attendo i film, perché vengo da una scuola che pensa al film e non all’autore. Lo dimostra la storia di grandi registi, come Spike Lee, che ha fatto grandissimi film e allo stesso tempi bruttissimo film. Nel momento in cui fa un bel film è un grandissimo regista, ma non smette di esserlo quando ne toppa uno. Dico solo, a quel punto, che il film non mi piace.

10/11/2008, 10:29

Antonio Capellupo