Note di regia del documentario "Zemalandia"
Filmare il volto di Zeman era un sogno della mia adolescenza. Lo sguardo carico di dura malinconia, il trench alla Bogart, le sigarette incenerite a fondo, come i calumet di un capo apache. Regalava un calcio esaltante e spiazzava i giornalisti con pause interminabili e frasi lapidarie. Sussurrate in tono monocorde. Un attore brechtiano assiso sulla panchina del Foggia. “Le hanno mai detto che ha un volto cinematografico?” gli ho detto al nostro primo incontro. “Me lo diceva sempre anche la mia maestra elementare” è stata la sua replica. Zeman, invecchiando, è diventato il Clint Eastwood che prometteva di essere. Ha la rude bonarietà di uno di cui ci si può fidare. In un pezzo del documentario dice. “E’ normale che da allenatore dovevo fare il duro, anche se non lo sono mai stato. Dovevo fare il mio ruolo, per il bene dei giocatori”.
Il decano Gianni Brera, poco prima di morire, lo chiamava “tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg”. Non ha avuto il tempo di capirlo. Di vederlo ridere e scherzare coi giocatori, di vederlo immerso in interminabili partite a tressette, con magazzinieri e massaggiatori che lo chiamano Il muto, il soprannome che gli affibbiò l’amico di sempre, Peppino Pavone. “L’ho chiamato muto perché parlava molto con gli occhi” spiega il direttore sportivo del Foggia. Quello sguardo che oscilla fluido tra durezza e malinconia. Con improvvise aperture alla dolcezza. La bocca, invece, rimane serrata. Ha l’aria di chi ha intuito qualcosa di profondo sul senso della vita. Ma non se ne vanta troppo. E’ una sua questione molto privata.
Nel 1969 piomba da Praga nella Sicilia profonda, lasciandosi alle spalle i carrarmati sovietici. Viene a trovare Vycpalek, lo zio famoso, allenatore del Palermo e della Juventus. Da allora ha sempre preferito il Sud. “Fa meno freddo, ci si allena meglio. E poi vivono il calcio con passione totale, non avendo molto altro”. Il Sud Italia, Roma inclusa, è anche il posto in cui vizi e virtù italiche si esaltano, tra passione e malaffare, violenza e sentimento. Come è stato possibile che un uomo di Praga, con la sua malinconia kafkiana, la sua misura, il suo rigore trovassero proprio a sud la propria collocazione ideale? “La risposta la offre lui, nel documentario: “Appena arrivato ero stupito dalla gente che parlava tanto e si sbracciava. Non ero abituato. Mi piaceva osservare tutto il movimento concitato che si creava sempre intorno a me. Dopo tanti anni penso di essere rimasto ancora quello di Praga. Osservo, cerco di leggere le situazioni. Ma sto sempre attento a rimanerne fuori.” Credo che la gente del Sud sia sedotta dalla sua renitenza a lasciarsi fagocitare.
C’è un episodio meraviglioso, che nel documentario raccontano i suoi pupilli Rambaudi e Signori. Nel primo campionato di B di Zeman, il Foggia era penultimo. Gran gioco, pochi punti. La stampa attaccava Zeman, il pubblico contestava ferocemente la squadra. Dopo una partita persa in casa, Il Foggia era ostaggio nello spogliatoio. Fuori impazzava la contestazione. I giocatori erano terrorizzati. “Io esco” sussurra Zeman”. E Beppe Signori_: “Mister, è pazzo, questi ci linciano”. “Io esco, ho detto”. Ed uscì. Trench, sigaretta accesa, tra due ali di folla che lo accoglievano tra sputi e insulti. Tirò una boccata forte alla sua MS e parlò alla folla inferocita “Non sprecate fiato”. Un battesimo del fuoco. La gente cominciò ad apprezzare il suo coraggio. E, di lì a poco, cominciò ad ammirarne la filosofia calcistica.
Giuseppe Sansonna