Fondazione Fare Cinema
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Note di regia del documentario "Corde"


Note di regia del documentario
Ho concepito l’idea del mio film nel duemila: avevo aperto una piccola libreria di cinema in piazzetta Banchi Nuovi. Passava poca gente di lì, e, pur stando a ridosso della zona universitaria, la piazza era vissuta solo dai ragazzi del quartiere. Fu un commerciante della zona che mi parlò della realtà pugilistica napoletana, di cui conoscevo la tradizione, ma che pensavo fosse quasi scomparsa. Seguendo tracce di questo mondo, poco dopo, ho incontrato la “NapoliBoxe”, la palestra di Lino Silvestri, figlio del mitico Geppino, maestro di Campioni. E lì tra le tradizionali facce e i corpi da pugile, c’era Ciro Pariso, esile, biondo, con un fare introverso, un corpo un po’ curvo ma allo stesso tempo fiero e consapevole. Quello che mi ha colpito di Ciro è la sua tenerezza. Contrariamente all’idea del pugile spavaldo e rissoso, Ciro era sofferente e taciturno, la sua postura un po’ curva, come se, detto con le sue parole “…mi facevo crollare il mondo addosso…”.
A partire da quell’incontro ho seguito Ciro (oggi venticinquenne) per quasi 4 anni. Mi trovavo quindi in possesso di molte ore di girato (oltre 70).Ho potuto poi, usufruire anche di immagini girate da Leonardo Di Costanzo che aveva incontrato Ciro quando aveva diciassette anni e che me le ha concesse quando ha saputo del mio lavoro, una splendida coincidenza. Quindi un arco di tempo molto lungo, che va dagli esordi come dilettante all’esordio da professionista avvenuto pochi mesi fa, il matrimonio, la morte del maestro Geppino, la nascita del figlio.
Ciro è uno di quei ragazzi che è dovuto crescere in fretta. La boxe, incontrata per caso, gli ha dato la possibilità di essere allevato in qualche maniera: fuggire dalla tentazione del delinquere, quando quasi tutti attorno a te lo fanno, impostare la vita secondo codici di una certa “normalità” è, in questa parte di mondo, un vero atto di resistenza.
Albert Camus vedeva la boxe come uno sport “assolutamente manicheo”. Non lo considerava un gioco, come il calcio o il tennis, ma “un rito che semplifica tutto. Il bene e il male, il vincitore e il perdente”. La dicotomia di cui parlava Camus si realizza in pieno nella storia di Ciro, tenerezza e rabbia, vittoria e sconfitta.

Marcello Sannino