Note di regia del documentario "Adisa o la Storia dei Mille Anni"
Questa è la storia di un viaggio nello spazio e nel tempo.
E’ la storia di un viaggio fra le comunità Rom della Bosnia ed Erzegovina, che partito per documentare il presente, ha finito per assumere i caratteri di un film storico.
Detto così potrebbe non spiegare niente: ma è proprio qui il punto. Intraprendere un viaggio, una ricerca per cercare di capire e finire per essere costretti ad abbandonare quelle certezze che ti permettono di capire le cose razionali e comprensibili, ma che dimostrano i propri limiti quando si tratta di fare una ricerca su ciò che non è razionale, come la storia, la vita, la cultura degli zingari.
Quindi abbiamo dovuto toglierci gli abiti dei professionisti e, saliti su un furgone prestatoci dal capo della comunità rom di un campo nomadi di Roma, siamo partiti.
“Adisa” è il risultato di questo lavoro, è il frutto del rapporto immediato, spontaneo, diretto, che si è verificato fra noi e loro, fra noi e le decine di donne e bambini che abbiamo incontrato in questo viaggio, “nello spazio e nel tempo”.
Poi una volta rientrati, abbiamo dovuto montare, costruire un lavoro che non poteva in nessun modo tradire le intenzioni con cui il lavoro stesso era stato fatto e concepito.
Per cui anche in montaggio non abbiamo tessuto nessuna griglia. Non abbiamo fatto letteratura per vincere l’angoscia di trovarsi di fronte un lavoro vastissimo senza nessuna bozza o canovaccio da seguire. Solo un’immagine. Quella di un trittico, con le sue tre tavole, due laterali e una centrale.
Un lavoro sulle immagini per non tradire quel rapporto con quegli uomini, donne e bambini che era stato tenuto esclusivamente a livello delle immagini, quelle che proponevamo, quelle che vedevamo, ma soprattutto quelle che nascevano nel rapporto fra noi e loro.
C’era infine una motivazione più razionale che era quella di capire che cosa ne fosse stato di loro, degli zingari, un popolo notoriamente senza patria e senza religione, in una terra quale la ex Jugoslavia in cui popoli, etnie si erano massacrati in nome di una nazione e del loro buon dio.
Infine la troupe: eravamo in quattro, io, il direttore della fotografia nonché operatore, l’aiuto regista nonché secondo operatore, e una guida zingara partito con noi da Roma che ci ha fatto da attore, guida e interprete e la cui presenza è stata essenziale.
Per concludere, un discorso sul lavoro più specificamente cinematografico:
il lavoro sulla luce e sul colore è stato altrettanto essenziale quando abbiamo compreso che se avessimo documentato obiettivamente e realisticamente quella realtà non avremmo capito niente e avremmo ucciso quella dimensione più profonda e misteriosa che è la vera essenza, la vera realtà di quel popolo e di quella cultura. Ombre, luci, colori per raccontare una storia attuale, ma che, attraverso le linee dei volti dei protagonisti, sembra ripercorrere la storia di questi mille anni da quando gli zingari, per una ragione tuttora sconosciuta, abbandonarono quella regione dell’India per non farvi più ritorno.
Massimo Domenico D'Orzi