Note di regia del film "Il Primo Incarico"
Da piccola amavo i film dei cowboy. Che se ne andassero alla fine da soli verso chissà dove. La libertà l’ho imparata dai film. Guardandoli in televisione, nel piccolo tinello della nostra piccola casa nell’ultimo paese del Capo di Leuca, scoprivo che il mondo era grandissimo, si poteva percorrere in lungo e in largo, si potevano fare cose incredibili, comportarsi in modi stravaganti, baciarsi all’improvviso tra sconosciuti, ballare sotto la pioggia. Ho voluto imparare a fare i film per raccontare il lato meraviglioso dell’esistente, il fatto che in qualunque momento può succedere qualunque cosa dentro e fuori di noi.
Con Xiang-Yang ci siamo detti spesso che questo film era un western dei sentimenti. L’ho scritto con lui e con Pierpaolo Pirone (di cui conoscevo già la scrupolosa sensibilità narrativa e, in questo caso particolarmente utile, la sua passione per Truffaut, per un cinema allo stesso tempo leggero e profondo). Li Xiang Yang invece è anche soprattutto un pittore. In realtà da quando lo conosco mi è stato compagno e maestro nell’arte cinematografica (prima di studiare al C.S.C. era all’Accademia del Cinema di Pechino), continuando però sempre a dipingere splendidi quadri. Dico questo per rendere più chiaro il modo in cui è nato il film: durante i nostri incontri di scrittura, mentre via via la storia si svolgeva davanti ai nostri occhi (questa volta è stato proprio così, questa storia forse perché in gran parte vera ha avuto fin dall’inizio la grazia particolare di svolgersi per conto suo, di crescere e fiorire come una pianta), noi parlavamo anche innanzitutto della luce, del tipo d’immagini, delle scenografie, dei costumi, delle sembianze di questo o quel personaggio. Poiché il mondo evocato dal film ha sempre avuto nella mia testa una vividezza particolare che solo il linguaggio cinematografico poteva restituire. Ci sono film così, film non “in costume” nonostante si svolgano in un’altra epoca, e infatti che sia ambientato in luoghi e in un tempo lontani non è dovuto solo alle necessità intrinseche della storia narrata, è stata anche soprattutto una ricerca di valore visivo: volevo ricreare un mondo che fosse bello e curioso da guardare, vivo come fosse presente eppure diverso da quanto ci circonda nella vita quotidiana. Troppe cose restano nascoste dentro i nostri giorni, bisogni e desideri profondi che non riusciamo più a percepire se non come una vaga continua frustrazione.
Volevo raccontare l’avventura di questa giovane donna che con tanta fatica e meraviglia scopre ciò che davvero vuole nella vita rendendola il più possibile trasparente alla percezione dei sensi: tutte noi siamo state almeno una volta Nena, abbiamo costruito almeno una volta un amore immaginario di tale potenza
da poter essere disperate all’idea di perderlo, a tutte noi la vita poi ha svelato la verità dolce/amara che quell’amore era niente.
E questo non vale solo per l’amore, vale oggi per un’infinità di cose. In questa favola moderna si racconta il lungo viaggio che compie Nena per arrivare alla propria originaria possibile felicità (è necessario dire che è fatta di tutt’altro da quello che siamo in genere indotti a credere?). E poiché volevo che intorno a lei ci fosse un mondo vivo e diverso dal consueto, accanto alla vera co-protagonista della storia, la Natura nel susseguirsi delle stagioni, ho cercato interpreti che fossero giusti, aderenti ai personaggi ma non troppo familiari al pubblico. Alla fine, dopo una lunga ricerca, è avvenuto che fossero tutti, tranne Isabella, non attori. E’ stato il rischio maggiore che ho corso e ho potuto farlo solo sapendo della speciale bravura di Isabella (non c’è mai stata un’altra Nena da quando ormai un bel po’ di tempo fa, attrice semisconosciuta, ho avuto il piacere d’incontrarla: lei ha avuto la pazienza di aspettare che il film si realizzasse, la grazia di restare come l’avevo vista la prima volta, la capacità di diventare nel frattempo l’attrice più interessante della sua generazione). Oggi comunque non potrei immaginare altri interpreti nei panni di ognuno di quei personaggi. So che l’intima coerenza di quanto è narrato dipende molto dalla circostanza che sono tutti come sbucati davvero da quei saloni o da quelle misere stanze.
Giorgia Cecere