Note di regia del documentario "Langhe Doc - Storie
di Eretici nell'Italia dei Capannoni"
Le Langhe
Quando ero poco più che un bambino i miei mi tesserarono per una squadra ciclistica di Bra, il gruppo sportivo Soresina. Magliette di lana ispida e irritante e biciclette da corsa anni '80: così è nato, in modo del tutto inconsapevole, il mio rapporto con le Langhe.
Mentre i miei amici difficilmente riuscivano ad uscire dal cortile di casa, noi fortunati ci avventuravamo in territori sconosciuti: dalle pendici di La Morra raggiungevo i compagni di squadra a Bra e da qui si tornava verso le salite di Verduno, Barolo, Diano, Monforte e poi sempre più lontano e più in alto, verso Dogliani, Belvedere Langhe, Bossolasco, Murazzano.
Allenamenti in bicicletta che diventavano veri e propri viaggi.
In parte, insomma, sono un langarolo, che tutti i giorni prendeva il pulmino per andare a scuola a La Morra; in parte, invece, sono un osservatore esterno, un turista di giornata che un tempo si addentrava nelle Langhe in bicicletta e che quasi vent'anni più tardi ci è tornato con cavalletto e telecamera.
Perché Langhe Doc? Per raccontare non tanto le Langhe, quanto la loro trasformazione.
In meno di venti anni, un arco di tempo ancora più breve del "breve spazio della mia lunga vita" di cui parla Giorgio Bocca (frase che da sola vale l'intervista), ho visto ogni paese e paesino, ogni buco di Langa dotarsi di un'area industriale e commerciale, quasi sempre posizionata nella parte geograficamente più bassa (ma non per questo meno visibile, anzi), quasi sempre sovradimensionata. L'area commerciale e i relativi capannoni di Roddi, di Barolo, di Verduno, di Neive, Barolo, Barbaresco...
Da studente di Architettura, leggevo termini come "urbanizzazione" o "diffusione urbana" e pensavo non al bacino della Ruhr o a New York, ma più semplicemente al "mio" territorio e a quanto stava diventando difficile separare le aree di città da quelle di campagna, distinguere una città dall'altra.
Venti anni fa sulla strada tra Bra e Alba c'erano tanti campi e un paio di paesi, oggi Bra e Alba sono diventate un'unica mostruosa entità, fatta di un'interminabile fila di case, villette, capannoni, edifici commerciali; i confini tra i due centri urbani, un tempo segnati da cartelli posizionati in aperta campagna, si trovano oggi incastonati tra le villette, nascosti tra un capannone e l'altro.
Quella non è Langa, penserete voi, ed è vero. Per usare i termini del Prof. Jukka Jokilehto, il professore scandinavo ingaggiato come supervisore del progetto di candidatura Unesco del Territorio Vitivinicolo di Langhe, Roero e Monferrato, si tratta di una buffer zone, le aree cuscinetto situate a ridosso delle core zone, le aree d'eccellenza.
Forse è giusto, è normale sacrificare zone paesisticamente meno pregiate per favorire lo sviluppo economico di un territorio; ma quando le buffer zone, le zone cuscinetto ormai irrimediabilmente compromesse da edilizia selvaggia e capannoni, si trovano nel bel mezzo della Langa del Barolo o addirittura in Alta Langa, ha ancora senso parlare di aree d'eccellenza? Quando chi visita Neive o Barbaresco non riesce più a scattare una fotografia del panorama senza inquadrare capannoni, palazzi, autostrade, viene meno il concetto stesso di paesaggio vitivinicolo.
Ecco, in "Langhe Doc" volevo raccontare questa trasformazione e, se possiblie, capirne le ragioni.
Un racconto difficile, perché non si è trattato di una trasformazione repentina, non ci siamo svegliati un bel giorno circondati dai capannoni.
Negli anni '80 abbiamo iniziato a fare la spesa nei primi supermercati costruiti fuori città, in piccoli capannoni. Poi i supermercati sono diventati più grandi, ospitati in capannoni più grandi; per comprare le scarpe non andavamo più in un negozio ma in un capannone; per andare dal ciclista, dal meccanico, dall'estetista entravamo in un capannone, per comprare un piccolo elettrodomestico andavamo in un capannone, e di fianco nascevano villette, e palazzine, e capannoni dove si costruivano i pezzi di futuri capannoni.
E' difficile raccontare ciò che è quotidianamente sotto i nostri occhi, una trasformazione talmente lenta che sembra quasi non avvenire.
All'inizio volevo dare voce ai "buoni" e ai "cattivi", sentire le ragioni di chi progetta palazzine, costruisce case, tira su i capannoni. Poi mi sono accorto che dividere la realtà in buoni o cattivi non ha senso: il documentario alla Michael Moore, alla Sabina Guzzanti, non mi ha mai convinto del tutto. Raccontare i "cattivi", le loro nefandezze, equivale a riconoscere implicitamente la propria superiorità e innocenza, ad auto-assolversi e scaricare la colpa sugli "altri".
Semplice, ma un pò inutile.
Ho invece scelto, seppure inizialmente in modo inconsapevole, una strada meno lineare, più tortuosa: raccontare tre storie estreme, storie di "eretici" (la felice definizione è di Federico Ferrero), di chi pensa e soprattutto agisce in modo diverso rispetto a noi tutti, me compreso.
Non storie di chi rovina il paesaggio, di gente da additare come colpevole di tutto quanto, ma storie positive grazie alle quali, per contrasto, fare emergere il negativo che c'è, e che vediamo tutti.
Nella radicalità di pensiero e scelte, Maria Teresa, Silvio e Mauro prestano il fianco a obiezioni e dubbi: forse non possiamo fare tutti come loro, non si può comprare solo cibo di qualità, la loro produzione è per pochi, i loro prezzi sono per un élite di consumatori, e così via.
Eppure in fondo alle loro storie, alle loro contraddizioni, si intravede una luce.
Tra tutte le difficoltà e i "se" si intuisce che è quella la strada giusta da prendere: non un abbandono di massa di città e uffici, ma un piccolo cambio nei nostri comportamenti, una piccola riflessione ogni volta che, da consumatori, entriamo in un altro capannone.
Il Film
L'idea di "Langhe Doc" me la portavo dietro da un paio d'anni.
Il mio lavoro precedente, "Il Corridore", realizzato con Stefano Scarafia, ne conteneva in sé alcuni elementi (il rapporto con la natura, il paesaggio, il conflitto sviluppo/ambiente) poi necessariamente accantonati per via della potenza della storia personale e sportiva di Marco Olmo.
Sapevo cosa volevo raccontare, ma mi mancavano i protagonisti del racconto.
A inizio 2010 ho letto, quasi per caso, un post del blog personale di Federico Ferrero, Alba Tragica, in cui raccontava il suo ritorno ad Alba da milanese acquisito, tra palazzoni ed edilizia popolare, né più né meno che la periferia di Milano.
Dall'incontro con Federico (che inizialmente volevo come personaggio del film, ma poi per sua fortuna è riuscito a salvare la privacy) è arrivato il primo nome: Mauro Musso, un ex dipendente della grande distribuzione che si era messo a produrre tajarin (le tagliatelle piemontesi) in proprio. A cascata, Mauro mi ha parlato di Silvio, "un altro matto come me", e nel giro di una settimana ho conosciuto anche questo Rambo ecologista, fuggito nei boschi con le sue cinquanta pecore.
Di Maria Teresa, invece, avevo delle notizie in famiglia, sbocciate nel nostro incontro. Per lunghi mesi Maria Teresa è stata un personaggio "in sospeso" perché gliel'avevo combinata grossa, dando buca per ben due volte consecutive al fatidico incontro dell'intervista; in poche parole, avevo esaurito la sua pazienza ancor prima di incontrarla, ma dopo alcuni mesi di "sbollitura" sono poi riuscito a recuperare i rapporti e lei, come già Mauro e Silvio, si è dimostrata persona aperta e disponibilissima.
Un discorso a parte merita l'incontro con Giorgio Bocca. Volevo a tutti costi intervistarlo perché conosce profondamente e ama le Langhe e perché è una delle poche voci della cultura italiana che ha individuato i pericoli e le difficoltà del nostro rapporto con il territorio ed il paesaggio ("l'Italia dei capannoni" è una sua definizione, concisa e aspra come suo solito). Senza santi in paradiso, ho fatto la cosa più semplice: ho cercato il suo nome sull'elenco telefonico e l'ho chiamato a casa.
Mi ha risposto con un tono austero, che però si è sciolto non appena ha appreso delle mie origini lamorresi."Va bene, per quelli della provincia di Cuneo va sempre bene".
La Realizzazione
Dal punto di vista realizzativo "Langhe Doc" è forse un film atipico.
Nel descriverlo trovo più punti in comune con l'immagine del pittore, che da solo si addentra nel paesaggio con il cavalletto e la tela, che non con il grande cinema, quello fatto di maestranze, carrelli e grossi budget.
E' il mio modo di filmare, e non avrei comunque potuto fare altrimenti.
Per quasi un anno, a intervalli regolari, mi sono concesso piacevoli gite in langa, a trovare Mauro, Silvio e Maria Teresa e a riprendere i paesaggi innevati, il grano che cresce, la battitura, la vendemmia.
Senza alle spalle una vera e propria scrittura, registravo elementi del paesaggio e delle vicende dei miei "eroi". Fin dall'inizio, mi era chiaro che non avrei raccolto delle storie concluse, non avrei raccontato, come da manuale del documentario, "l'evoluzione di un personaggio". E infatti i ritratti dei protagonisti sono parziali, così come quello del paesaggio, che necessariamente non poteva contenere tutti i luoghi e gli aspetti delle Langhe. E tuttavia mi sta bene così. Mi sta bene che le storie di Maria Teresa, Mauro e Silvio abbiano un finale aperto, che talvolta i concetti siano solamente abbozzati, che il paesaggio sia raccontato attraverso piccoli blocchi (gli Intervalli) di immagini e musiche create da Giorgio Boffa, amico e compagno di giochi dai tempi dell'infanzia (anche su questo aspetto, un bel ritorno alle origini).
Mi sta bene perché gli "eretici", per definizione, non hanno un Libro, procedono per scarti rispetto al pensiero dominante, per scelte fatte di prove e tentativi, di fughe solitarie coraggiose e incoscienti.
Per una volta, spero che il gruppo si metta al loro inseguimento.
Paolo Casalis