Note di regia del film "Il Sesso Aggiunto"
Il doloroso problema dell’eroina, che dalla fine degli anni Settanta fino ai primi anni Novanta ha dirottato molti giovani verso uno stato di coma interiore, annientandoli e uccidendoli, sembrava fosse stato ormai arginato a ciò che rimaneva di una generazione di “drogati”. La richiesta di “roba” (così, generalmente è chiamata l’eroina dagli acquirenti) aveva subìto un calo consistente, lasciando i numeri alti delle statistiche ad altre droghe, prevalentemente eccitanti, pur sempre motivo di preoccupazioni, ma certamente meno estreme: Perché essere tossicodipendente da eroina significa vivere quello e nient’ altro; significa aver acquisito quell’ unico modo di essere.
Poi, da qualche tempo ad oggi, l’eroina si fa sempre più spazio sul palcoscenico dello “sballo”, puntando a riprendersi il suo ruolo di protagonista incontrastata. I Ser.T e gli organi competenti registrano dati e percentuali che aumentano di giorno in giorno; negli ultimi due anni c’è stato un incremento dei consumi di eroina del 40% circa. Ma al di là dei numeri, resta una drammatica realtà che ci riguarda tutti: I giovani di nuovo alle prese con l’ eroina. Certo, il rapporto fra questi e la sostanza è momentaneamente diverso da quello che era una volta (oggi i ragazzi usano fumarla e credono di poterla facilmente gestire, motivo per cui non si ritengono “tossici”), ma la “roba” e i meccanismi che la controllano sul mercato sono identici, e spietati: Creano tossicodipendenti da eroina, oggi come ieri, inevitabilmente uguali. E uguali restano i motivi, o il motivo, per cui una persona si rifugia in lei.
Una tragedia imminente, quindi, che mi ha trascinato fra i miei ricordi lontani, quando, ventenne, ho conosciuto molto da vicino il mondo dell’eroina. Mi sono sentito prendere da una profonda angoscia. Mi sono passati nella mente tutti quei miei amici che non ci sono più. Ho ricordato la solitudine; il vuoto. Ho pensato al futuro dei miei figli (un ragazzo e una ragazza di diciassette e quindici anni), ai giovani, a quello che potrebbe di nuovo accadere. Mi sono ritrovato con un innocente bisogno di fare qualcosa. Ma cosa?
E’ vero, questo è uno di quei problemi che andrebbe curato alle sue origini. Basterebbe, per esempio, proporre delle valide alternative ai sogni; o, quanto meno, per non cadere nel retorico discorso della “società ideale”, basterebbe prendere coscienza che la vita è esattamente quello che appare (almeno fino ai prossimi due o tremila anni), e che i sogni fanno parte di questo apparire, quindi, nella loro bellezza ed energia, hanno un fine sicuramente meno importante dell'essere. E che essere, comunque, significa anche vivere questa vita, così com’è, al di là dei sogni.
Io sono sempre stato convinto che l’eroina non la si incontri per caso. Anche il discorso delle “cattive compagnie” lo trovo semplicistico: le “cattive compagnie” ce le andiamo a cercare, inconsapevolmente, quando crediamo che queste ci possano dare qualcosa di cui abbiamo bisogno. Non sappiamo bene, cosa. Ma qualcosa che stiamo cercando senza nemmeno saperlo; perché, senza saperlo, vogliamo allontanarci dalle nostre frustrazioni.
Può succedere, poi, che le “cattive compagnie” ci facciano incontrare la droga, e che troviamo in lei la nostra via di fuga. Ma, sicuramente, se non avessimo incontrato lei, avremmo cercato altrove. Saremmo potuti diventare, probabilmente, di quei signori che ammazzano le vecchiette nei giardini pubblici (magari solo per avere il proprio nome sulle prime pagine dei giornali); o di quei pedofili o stupratori sempre pronti a prendersela con il mondo. O avremmo continuato a vivere la nostra vita senza vita, sempre nell’inconsapevole ricerca di una morte, fino alla morte.
Quindi, evitare di incontrare l’eroina potrebbe portare a conseguenze ancora più gravi?
E’ possibile! Ma io ho fiducia negli esseri umani, credo molto nella potenzialità che abbiamo dentro; e, senza volermi inoltrare in discorsi utopistici in cui si parlerebbe di “libertà interiore”, sono sicuro che una via di uscita esiste. Basterebbe riuscire a convivere con quel dio che è in ciascuno di noi, sentirlo, riconoscerlo. E’ quella parte pura e incontaminabile della nostra anima. E’ quel dio che ci fa commuovere, che ci fa piangere di gioia o di dolore… Credo che sia proprio quel dio, l’ amore, che può aiutarci a superare ogni ostacolo che la vita ci pone davanti.
Allora, mi sono detto, la tossicodipendenza potrebbe diventare uno strumento per parlare anche dell’amore, o soprattutto dell’amore.
Queste mie riflessioni, le ho memorizzate, a penna, su tanti fogli che ho accumulato.
Così, senza rendermene conto, avevo già scritto il progetto di questo film. Si, si trattava proprio di un film! Ecco cosa volevo fare: Un film. L’idea di tornare alla mia grande passione, il cinema; al mio vecchio lavoro; di fare il mio primo lungometraggio, dopo tanti anni in cui non ci pensavo proprio più, mi emozionava molto. Sono partito subito con la sceneggiatura.
Avevo già capito che per rendere più comprensibile la tossicodipendenza, non sarebbe stato sufficiente fotografare la realtà, dire quello che un “tossico” fa. Avrei dovuto dire, invece, quello che un “tossico” è. Avrei dovuto raccontare il suo mondo interiore, per farne scorgere quei segreti accantonati fra i nascondigli dell’anima.
Tutto ciò che stava prendendo forma nella mia mente mi faceva capire che, la realtà, avrei dovuto rappresentarla. Rappresentarla, per me, significa spingerla all’eccesso, portarla all’estremo, da far crescere lo spazio che la raffigura in modo tale che tutti possano trovarvi un posto. Il dialogo, la recitazione, la messa in scena, l’inquadratura, l’intero complesso degli elementi che il mezzo cinematografico offre, passano attraverso un filtro che scompone la realtà in segmenti di intime riflessioni, e poi la ricompone in una realtà inevitabilmente più vera, forse per la prima volta comprensibile.
Inoltre, non potevo non considerare che la tossicodipendenza da eroina, in quanto estrema, è, di per sé, la rappresentazione di ogni forma di dipendenza; quindi, “rappresentare”, significava anche creare un’assonanza fra la mia rappresentazione e quella già esistente.
Per realizzare ciò che avevo scritto nella sceneggiatura, è stata indispensabile una lunga e meticolosa preparazione. Basti dire che sono stati necessari oltre sette mesi di assidui provini per la scelta degli attori (ne ho provinati centinaia, dal ruolo protagonista ai piccoli ruoli). Era fondamentale, per me, che gli attori affrontassero il dialogo come si affronta un testo teatrale, nel rigoroso rispetto delle battute. Ma, essendo un dialogo “letterario”, e trattandosi di cinema, c’era il rischio di poter cadere nel goffo e nel retorico da un lato, e nel finto e nel macchinoso dall’altro. La maggiore difficoltà era trovare la linea di equilibrio e percorrerla senza cadere. Per risolvere questo problema; per costruire i personaggi e mettere a fuoco i dettagli, ho avuto con gli attori una serie di incontri, seduti al tavolino come si fa in teatro, da molto prima dell’inizio delle riprese. Voglio veramente ringraziarli.
Così come ringrazio tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione di questo film, parlo anche dei macchinisti e degli elettricisti, che con passione e dedizione hanno lavorato senza mai farmi sentire il peso della mia pignoleria. Un grazie particolare a Giovanni Madonna, che ancor più di me ha avuto il coraggio (o l’incoscienza) di produrre questa pellicola; a Maurizio Dell’Orco, che con grande sensibilità artistica ha saputo interpretare il mio pensiero; e al M° Nicola Piovani, perché quando ho ascoltato per la prima volta le musiche di questo film, ho pianto di gioia.
Francesco Antonio Castaldo