Festival di Cannes: "La piel que abito", un brutto melodramma
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La piel que habito (La pelle in cui abito)" di Pedro Almodovar, uno dei lungometraggi più attesi del Concorso internazionale, star di questa nona giornata di Festival, che si avvia alla fine senza aver ancora trovato il capolavoro, lascia l’amaro in bocca ai fan del regista spagnolo e delude i cinefili.
Pur riconoscendo ad Almodovar il merito di saper mescolare con maestria ed estro tutti i tipi di cinema e filmare in modo avvincente e al tempo stesso divertente il reale e l’onirico e darci storie memorabili, bisogna dire che l’horror o pseudo tale non gli si addice.
"La pelle in cui abito" è
un brutto melodramma infarcito di divagazioni visive allettanti ma inutili, che ne rendono incomprensibile la trama e che distolgono dalla comprensione della storia principale lineare, nuova ed avvincente. In altre parole nel suo film vi sono troppi orpelli visivi e troppo divagazioni narrative.
Il suo film è un melodramma confuso e squinternato che fa ridere e sghignazzare lo spettatore nei suoi momenti più drammatici, come è avvenuto alla proiezione stampa di ieri.
"La pelle in cui abito" è tratto dal romanzo Tarantula di Thierry Jonquet. Protagonista di questo "soft horror" l’avvenente Robert Ledgard chirurgo plastico, interpretato in modo molto convincente da Antonio Banderas. Il dottor Ledgard, a dodici anni dall’incidente d’auto che ha gravemente ustionato e sfigurato sua moglie Gal, suicidatasi in seguito per disperazione, ha creato con metodi non ortodossi una nuova pelle che è una vera corazza. In seguito per vendetta, con un intervento "vagino-plastico" trasforma il giovane Vicente, che ha violato sua figlia Norma, nell’affascinante Vera.
Le gesta delittuose del dottore morte non si arrestano qua in quanto uccide a bruciapelo il suo fratellastro Zeca (alias Tigre) che aveva scoperto l’esistenza di Vera tenuta da anni in reclusione con la complicità di sua madre Marilia. Il finale di questo lungo e macchinoso film a tratti anche divertente vede ancora due morti tragiche e per colmo d’ironia il ritorno di Vera-Vicente alla boutique d’indumenti alla moda e l’incontro con Cristina la sua fiamma. E chissà che tra loro non nasca l’amore. Tutto è possibile!
A schermo spento penso che sia lecito chiedersi se Pedro Almodovar si è completamente smarrito nel labirinto dell’horror d’azione, genere per lui nuovo, oppure non prendendosi sul serio e prendendo in giro lo spettatore ha creato un sublime "pastiche".
Per ora queste sono solo supposizioni.
La realtà è che alla fine della prima proiezione ci sono stati fischi e solo qualche anemico applauso. Tra le futilità visive del film la tecnologia di punta della dimora dell’insigne medico, quadri dagli splendidi colori, inquietanti oggetti che mostrano manipolazioni genetiche e grafica avanguardistica.
20/05/2011, 12:35
Martine Cristofoli