CESARE DEVE MORIRE - I Taviani in Conferenza Stampa
Paolo e Vittorio Taviani hanno lo spirito inimmaginabile di due ragazzini al primo film. Oltre che la verve e lo humour per conquistare anche i freddi berlinesi.
Soprattutto hanno humanitas, o meglio pietas per dirla alla latina. Una compassione per l'uomo nel suo immenso e complesso essere, fatto di bene e male, di dolore inflitto e patito, di gioia spesso così effimera.
"Anche noi ci siamo sorpresi - affermano - di riscoprire tutto questo alla nostra età. Di ritrovarci davanti ad un'umanità dolente, sofferente, colpevole, con un bisogno enorme di riscattarsi, senza mai però dimenticare anche l'incredibile dolore che loro stessi hanno inflitto commettendo i loro crimini. Ci siamo trovati di fronte a qualcosa di spiazzante, si fa così presto a giudicare e si fatica così tanto a comprendere".
Com'è nato il progetto, come siete arrivati a Rebibbia?
"Un'amica ci disse - spiega Vittorio - che in Italia c'era un posto, a teatro s'intende, dove ancora si sentiva l'emozione, dove ancora si usciva piangendo. E ci disse che il luogo era il palcoscenico del carcere romano. Bene, ci siamo andati, abbiamo visto i detenuti recitare alcuni canti della Divina Commedia e con Paolo ci siamo subito detti che volevamo fare qualcosa, e sarebbe stato il "Giulio Cesare". Poi con Fabio Cavalli abbiamo lavorato benissimo, sia per i provini che sui ruoli, abbiamo chiesto permessi per girare ma sono stati tutti molto disponibili".
Credete che il teatro abbia una funzione educativa e terapeutica? Come hanno risposto i vostri detenuti?
"Certo che lo crediamo - afferma Paolo - ma mi ci vorrebbe un'oretta per rispondere a questa domanda. Nel momento in cui lo affermiamo stiamo già limitandone l'effetto, o circoscrivendo la potenza dell'arte. Credo che il nostro film sia più un raccontare l'incontro con l'Arte da parte di queste persone e per parte nostra un meglio comprendere le loro vite. Inoltre noi conviviamo con questa istituzione tremenda che è il carcere di cui non sappiamo molto finchè non lo vediamo davvero. E cosa si possa fare o meno lì dentro. In questo nostro racconto assistiamo alla scoperta vera e propria della potenza dell'Arte e per farlo abbiamo dovuto prendere il più grande, ovvero Shakespeare".
Un confronto non da poco.
"Diciamo sempre che lui è nostro padre, fratello e figlio. Ci siamo permessi molti lussi con lui, l'abbiamo smembrato, trattato male, costruito e decostruito, ma tutto per amore".
Come lavorate prima e durante i set?
"Noi facciamo tutto insieme, tutto! Scriviamo la sceneggiatura uno di fronte all'altro, prepariamo le scene e le inquadrature insieme, se ce ne sono dieci si fa cinque e cinque, il problema - e sorride Vittorio - è quando arriva l'undicesima. Chi la deve fare? E comunque ormai abbiamo un'esperienza tale che ci consente con una grattatina al capo di intenderci subito".
"C'è un solo problema - dice Paolo - ed è che dividiamo anche i soldi!".
Perché l'uso del dialetto lo spiega Fabio Cavalli.
"Lavoro da dieci anni a Rebibbia come direttore del laboratorio teatrale e questa esperienza del dialetto è nata per ridare ad ognuno dei detenuti un senso nascosto da ritrovare delle parole stesse. Non è nè teatro in lingua nè amatoriale, ma da quando abbiamo iniziato questo tipo di lavoro sul linguaggio, con la Divina Commedia, abbiamo scoperto che è difficile rinunciarci. Lo trovo un modo potentissimo di comunicare. Non dimentichiamo che oggi il teatro di Rebibbia è un teatro che fa parte del circuito dei teatri romani, non è più un luogo chiuso, tutti ci potete andare".
Infine Salavtore "Sasà" Striano, un ragazzo con otto anni di carcere alle spalle, una storia di crimine e galera che ritrova il modo di drizzarsi attraverso il cinema. Quasi con le lacrime agli occhi, incredulo per il suo percorso personale ha detto che "per me è un onore grandissimo aver partecipato a questo film. Sapere che i Taviani mi volevano mi ha fatto lavorare il doppio per non deluderli. Per me si tratta di un vero e proprio riscatto attoriale e li ringrazio davvero per avermelo permesso".
11/02/2012, 18:02
Monica Straniero