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BFF STORY - Morando Morandini


BFF STORY - Morando Morandini
In occasione della celebrazione del trentennale del "Bellaria Film Festival", Cinemaitaliano.info ripercorre la storia della manifestazione dando voce ad una serie di personaggi che hanno lasciato il segno.
Si parte con Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana e storico direttore artistico del festival.

Cosa ricorda del momento in cui le proposero la direzione di “Anteprima per il cinema indipendente italiano”, oggi Bellaria Film Festival?
L'idea di questo festival venne al direttore di un'azienda di soggiorno di Bellaria, un lettore de “Il Giorno”, che mi stimava e mi propose la direzione della manifestazione. Risposi che avrei accettato solo se non fossi stato da solo, e gli spiegai che in quel momento le città dove era più vivo il cosiddetto cinema indipendente erano Milano, Torino e Roma. Feci in modo che la direzione artistica, e quindi la selezione dei film, fosse dislocata in questi tre centri. Io vivevo e vivo a Milano, a Roma chiamammo Enrico Ghezzi, a Torino fu scelto Gianni Volpi.

Che tipo di partecipazione di pubblico ci fu?
In realtà la città rispose molto poco, ma veniva gente dalle città vicine. Una rassegna di cinema indipendente può essere apprezzata da un tipo di spettatore di cultura medio alta, interessato al problema. Ma c'è da dire che anche negli anni più felici la partecipazione del pubblico di Bellaria è stata sempre limitata. Per ogni film presentato arrivava il regista, spesso accompagnato da un gruppo di amici e dai suoi collaboratori. Per questo motivo si può parlare di un pubblico specializzato nella maggior parte dei casi.

Qual'è secondo lei il motivo per cui non riuscì ad essere “popolare”?
Più in generale bisogna tenere sempre conto di un fenomeno cominciato alla fine degli anni '60. E' solo una minoranza degli italiani che va a cinema e più passano gli anni e più diminuisce quella minoranza, perché guardano la televisione.

Nel 1986 accadde qualcosa di molto anomalo. La giuria si rifiutò di assegnare il “Gabbiano d'oro”. Come reagì a quella scelta?
Ricordo che quando venni a sapere che la giuria non aveva dato il premio mi arrabbiai, perché me era una questione di principio: se esistono i premi, bisogna darli. Siccome è sempre una scelta relativa, nel momento in cui manca il film che merita il primo premio, si fa in modo di premiare quello più vicino ad esso. A differenza dei festival grandi, uno piccolo come Bellaria è rivolto a dei giovani che stanno cominciando una carriera. Sono degli artigiani e il riconoscimento che riescono ad ottenere è vissuto come un primo traguardo per la loro carriera.

Quindi è sicuro che non fosse una critica rivolta a chi quei film li aveva selezionati?
Non credo che fosse stata messa in discussione la nostra scelta, perché una polemica simile nasce solo se uno vuole contrapporre alla scelta dei titoli scelti, altri non selezionati per il concorso e valutati migliori.

Cosa cambiò maggiormente tra la primissima edizione del 1983 e la sua del 1984?
Quella del 1983 era nata in un altro modo. Si andava a Roma a scegliere dei film che non erano stati segnalati per altri festival. Affidarono la selezione ad un giornalista che entrò poi in giuria l'anno successivo, ma che in seguito non fu più chiamato perché aveva una mentalità “troppo romana”. Era evidentemente legato a certe produzioni, all'interno delle quali aveva amici “raccomandati” e non poteva andare d'accordo con noi, più liberi e distanti da quell'ambiente.

Quindi la sua fu un'edizione nuova sotto ogni aspetto?
Assolutamente, l'anno prima arrivavano solo film scartati da altri Festival. Tra la I edizione vera e propria, quella del 1984, e quella precedente, c'è una differenza sostanziale. Non è un suo proseguimento.

Nel 1987 fu introdotto il Premio Casa Rossa. Da dove nacque l'idea?
Il numero dei film partecipanti al festival aumentò, perché nel Casa Rossa non concorrevano gli stessi titoli in gara per il Gabbiano d'oro. Questo nuovo premio, in qualche modo si riallaccia all'edizione del 1983. Mentre per il Gabbiano d'oro i lungometraggi, mediometraggi e corti erano scelti direttamente dalla direzione artistica, per il Casa Rossa partecipavano lungometraggi di fiction che erano stati distribuiti più o meno male sul mercato. Lo facemmo per interessare il Festival anche a questa produzione.

E perché proprio il nome “Casa Rossa”?
É un nome che viene dato, a livello popolare, all'abitazione storica dello scrittore Alfredo Panzini. Facemmo un omaggio ad un personaggio importante di quella zona.

Un altro importante concorso era “Tre minuti a tema”, che nel 1990 vide trionfare Ciprì e Maresco con “Illuminati”, due filmmakers divenuti nel tempo autori affermati...
Il loro cortometraggio era certamente quello che meritava più di tutti gli altri. Già al tempo diedero dimostrazione di saper abbinare, come poi avrebbero fatto nei film successivi, un certo professionismo tecnico, che penso fosse dovuto soprattutto a Ciprì che maggiormente si occupava della fotografia, ad una originalità di temi e contenuti. Si distingueva nettamente dagli altri concorrenti.

Come mai nel 1997 lasciò la direzione del festival?
Non ho lasciato, non sono stato più confermato. Era cambiato l'assessore alla cultura del comune di Bellaria, principale finanziatore del festival e siccome nel primo anno ci siamo scontrati più di una volta visto che le nostre idee non coincidevano, appena ha potuto mi ha licenziato.

Venne però richiamato nel 2002. Con quali idee in testa fece ritorno a Bellaria?
Anche in quell'occasione, la prima cosa che misi in chiaro è che sarei tornato a Bellaria solo se avessi avuto al fianco altri due collaboratori. Fui io stesso ad indicare Antonio Costa e Daniele Segre, che nel frattempo avevo conosciuto meglio come autore, con cui ci fu una grande intesa. Eravamo tre diversi operatori nel mondo del cinema. Io ero un critico di cinema, Costa era un docente di cinema e Segre era uno che “faceva il cinema”. Si era creata una certa armonia nelle decisioni perché ognuno dei tre in fondo aveva un'ottica diversa che messa insieme riusciva a dare certi risultati.

Cosa significa, secondo lei, essere oggi un autore indipendente?
Se guardiamo ad oggi, è facile notare un degrado e un abbassamento di quantità e di qualità di film in circolazione, ma ciò corrisponde ad un degrado di tutta la società italiana. Basta aprire un giornale qualsiasi per constatarlo. Quando parlo di cinema indipendente, mi piace citare due registi che stimo e ho il piacere di avere tra gli amici, Daniele Segre e Luigi Faccini. E' difficile dire se sono più indipendenti degli altri, però io li definisco due “fuoristrada” del cinema italiano. Fanno soltanto film che gli vanno bene, altrimenti si rifiutano di farli anche se hanno delle proposte. Quando si parla di cinema indipendente, bisogna tenere conto di una serie di fattori, quello legato al denaro in particolar modo, perché una persona può ancora pubblicare un libro, sapendo che il rischio economico è basso, ma nel cinema è diverso. In questo campo il rischio è alto, e dunque mi chiedo come si possa riuscire ad essere indipendenti dall'aspetto economico! Perfino Bernardo Bertolucci, un autore affermato sul piano internazionale, non può fare totalmente ciò che vuole, ma per trovare i soldi per i propri film, deve adattarsi anche lui alle regole del mercato.

Oggi la più prolifica “categoria” di indipendenti è quella dei documentaristi. Che ne pensa?
Bisogna sicuramente tener conto dei progressi della tecnologia. Negli anni 2000, rispetto agli ultimi due decenni, si realizzano più documentari e perfino più film d'animazione, perché il digitale ha permesso di far crollare i costi di produzione. Oggi fare un documentario è molto più facile rispetto ad un film di finzione, perché non devi pagare gli attori. In quel caso poi, o ti affidi a degli sconosciuti, che costano poco e rendono poco, o se vuoi degli attori che attirino il pubblico, l'esborso è alto. Negli poi il documentario è mutato, si è arrivati alla docufiction, il doc contaminato con la finzione, e al mockumentary, dei finti documentari giocati molto sull'ironia. Ma soprattutto non serve più la pellicola. Oggi un documentarista, anche se vuol fare un film di una durata di 50 o 60 minuti, può girare senza problemi anche l'equivalente di10 mila metri pellicola!

Tra i vincitori degli anni 2000, vanno citati due giovani autori, Pietro Marcello e Michelangelo Frammartino, che con i film d'esordio hanno entusiasmato la critica ma non sono riusciti ad arrivare al grande pubblico. Come mai?
Sono due veri “casi cinematografici”. Entrambi hanno avuto un certo successo all'estero, non Italia. Gli incassi nel nostro Paese sono inesistenti. Hanno fatto dei film che hanno colpito dei paesi, Francia, Germania e Inghilterra, dove tutto sommato c'è un'organizzazione del mercato migliore della nostra.

Sta dicendo che il loro non è un cinema “adatto” al pubblico italiano?
Bisogna tener conto di un fattore che aiuta a capire questa situazione. Abbiamo da vent'anni la peggiore televisione d'Europa. Ormai quando si vendono 100 milioni di biglietti in un anno gli esercenti sono abbastanza contenti, ma se si pensa che nei '50 siamo arrivati a 800 milioni, capisci che è una piccola minoranza di cittadini che va a cinema. Il resto guarda la televisione più scadente in circolazione. Ci sono quasi due generazioni di giovani italiani che, rispetto ai loro nonni, sono praticamente degli ignoranti. Film come “Il passaggio della linea” o “Il Dono”, non possono avere un appeal per un pubblico simile. Esistono dei dati inquietanti sul cosiddetto “analfabetismo di ritorno”. I giovani alle elementari e medie imparano a leggere e a scrivere, ma se dopo non hanno un libro in casa, quello è analfabetismo di ritorno.

Che cosa le ha lasciato la lunga esperienza di Bellaria?
Sono abbastanza soddisfatto di aver fatto da “levatrice” ad un gruppetto di giovani registi che in vari modi si sono affermati nel cinema italiano. A Bellaria li abbiamo aiutati a fare apparire i loro nomi e i titoli dei loro film sulla carta stampata e sulla tv. Pensando ad un bilancio finale di tutto il nostro lavoro fatto, ne viene fuori un qualcosa di positivo. Senza dubbio è una soddisfazione retrospettiva, vuol dire che siamo serviti a qualche cosa.

E nonostante la differenza d'età, da questo gruppetto di giovani che ha citato, sente di aver imparato qualcosa?
Finché ci si riesce si impara sempre, dai giovani e dai meno giovani. Una delle regole che cerco di seguire nella mia vita, è che c'è sempre qualcosa da apprendere dagli altri. Se uno si rende conto che non ha più niente da imparare vuol dire che è mezzo morto.

31/05/2012, 21:00

Antonio Capellupo