QUARANTA GIORNI - La storia di Anastasia, Julia e Vica
Ogni anno
migliaia di orfani bielorussi vengono in Italia, accolti da famiglie volontarie, per trascorrere brevi periodi di recupero fisico e affettivo.
“Quaranta Giorni” racconta il viaggio a Ciampino (Roma) di Anastasia, Julia e Vica, concentrandosi sul delicato rapporto che si crea tra loro e le famiglie ospitanti.
Nel 1986 dopo l’esplosione di Chernobyl si assiste al fenomeno da parte dei paesi occidentali di un tentativo di occuparsi delle conseguenze sociali ed umane di questa catastrofe.
Centinaia di bambini bielorussi vengono ospitati dai comuni italiani e tra questi comuni Ciampino in provincia di Roma è stato uno di quelli più attivi nell’affrontare con più apertura questo tipo di emergenza.
“Quaranta giorni” di Emma Rossi Landi, documentario del 2003, è la storia filmata di questo tentativo,
una prova di sensibilità femminile nei confronti di chi si trova in difficoltà senza conoscere la lingua di un paese straniero. Fa' impressione vedere in tv l’intimità che Emma riesce a creare tra la sua camera, una camera mobile, che respira, che si sposta secondo le emozioni e le parole sussurrate dei protagonisti, e i volti di Anastasia, Julia e Vica. L’occhio dello spettatore oggi non è abituato ad accogliere questo tipo di tempi cinematografici. Questi sguardi persi nell’incertezza di un futuro sono esclusi di solito dal veloce circo della brillante televisione.
Gli ultimi della società non fanno audience, gli ultimi e i deboli di solito non appaiono in tv o nel cinema, vanno di moda i bei muscoli esposti, i tatuaggi e le abbronzature, i gossip da riviera. E’ vietato oggi mostrare in tv la dolcezza delle lacrime e il baratro della precarietà esistenziale. Il prodotto televisivo standard è come il fast food, deve essere funzionale ad un consumo veloce e senza possibilità di riflessione.
Emma invece ha avuto il coraggio e la dolcezza di avvicinarsi alle storie e ai volti di chi la Storia lha subita e di chi paga con il proprio dolore il prezzo del progresso. I bambini.
La regista ha scelto poi il ritmo della vita reale. E’ quasi assente il montaggio all’interno del documentario, la vicenda si svolge davanti a noi con una fluidità ed una naturalezza emozionante. Non è la trama forte in questo film a catturare la nostra attenzione ma la vicinanza, la confidenza, l’intimità che si crea tra le protagoniste e la troupe.
Emma per circa un anno e mezzo si è dedicata alle loro storie, entrando a fondo nelle loro vite, toccando dei momenti di infinita poesia e di pesantissimo sconforto quando è evidente lo scarto che si può creare tra le famiglie che ospitano le bambine e l’aspettativa che era stata creata all’inizio.
Il film riesce in maniera profonda a svelare le idee preconcette che entrambe le parti narrate, sia i genitori italiani che i bambini ospitati, hanno della felicità. Quale è la vera felicità infatti? La loro o la nostra? Che diritto abbiamo noi occidentali, benestanti ed immersi nel più sfrenato consumismo, di decidere per loro quale parametro di felicità imporre?
Da questa ambiguità delle parti sembra distinguersi Natasha, l’assistente sociale bielorussa che ad un certo punto della sua bellissima intervista conclude: “In fondo, questi bambini hanno bisogno solo di amicizia, almeno all’inizio”.
Ci sono dei
momenti di reale magia in “Quaranta giorni”, come nell’incontro tra Natasha ed Anastasia che va a toccare delle corde che commuovono in maniera esplicita. Ci sono pochi documentari dove si piangere per l’emozione. In “Quaranta giorni” può succedere.
Un'altra chiave di lettura del film sta proprio nella vicinanza con i volti che Emma va a cercare. La sua piccola troupe leggera sfiora le parole ed i sogni delle bambine bielorusse, sembra quasi volerle prenderle per mano e portarle in un mondo migliore, lontano dalle centrali che esplodono, lontanissimo dai giochi costosi dei grandi che le hanno costrette per quaranta giorni a vivere così lontano dal loro paese e dai loro affetti.
Colpisce la staticità monolitica nell’affrontare le interviste con i grandi; se con i piccoli percepiamo una camera “partecipata” e quasi empatica, al contrario nel parlare con i grandi la regista sembra ritornare al frontalismo del documentario tradizionale quasi come per prendere le distanze da quelle parole grigie e già decise. Sono le frasi dei grandi. Quasi sempre frasi fatte.
12/07/2012, 11:00
Duccio Ricciardelli