Note di regia del film "Bellas Mariposas"
Qualche anno fa, leggendo per la prima volta Bellas mariposas di Sergio Atzeni, sono rimasto abbagliato. Tanto dalla trama, lieve e terribile, e dal modo in cui si dipana, quanto dalla forma, musicale e inusitata soprattutto nell’adozione spregiudicata della lingua del luogo. Mai, nella letteratura sarda, tanta grazia e tanta leggerezza si erano coniugate ad accadimenti anche drammatici: ogni più piccolo episodio della giornata di Cate e di Luna, anche quello più vicino alla peggior cronaca, è sempre stemperato da un’ironia sottile e da una capacità di sorridere di se stessi rara nella nostra letteratura e nel nostro vissuto almeno quanto l’intrusione continua della lingua parlata in quella scritta. In questo Atzeni può essere considerato, a buon diritto, l’apripista, il padre della nuova letteratura isolana, per esplicita ammissione anche di coloro che lo hanno succeduto e a cui hanno manifestato dichiaratamente di ispirarsi. Eppure qui sta il paradosso, l’errore più grande: trattare Bellas Mariposas e Sergio Atzeni solo come una faccenda isolana da dibattere tra conterranei.
Le “zazies” di Atzeni (che si aggirano nella città di Cagliari come quella di Queneau faceva a Parigi) potrebbero avere ugualmente vita allo Zen di Palermo, a Scampia, o nelle periferie di Caracas. Sono cittadine del mondo come del resto amava definirsi il loro padre letterario: "
…sono sardo, sono italiano, sono europeo…"
Ad una successiva lettura del libro, alla fascinazione segue poi inevitabilmente lo “sgomento” man mano che alla curiosità del lettore occasionale si sostituisce l’attitudine non più spensierata di chi è a caccia di una storia da portare sullo schermo. Una domanda sorge spontanea dopo una seconda lettura: apparterrà soltanto alla letteratura, al dominio della parola scritta o vi è la possibilità anche remota di travasarlo in qualche modo al cinema, tenuto conto che il soliloquio musicale di Cate inanella, una dopo l’altra, una serie di immagini che per la loro straordinaria forza icastica ricordano alcune periferie assolate di Pasolini e guadagnano talvolta, in modo inaspettato, la sostanza di alcune apparizioni felliniane come nell’episodio della coga, la maga che domina tutto il finale del racconto.
In Bellas mariposas - il racconto, e spero anche il film - realismo disperato e magia si combinano come in una pala d’altare. La lingua si nutre continuamente degli idiomi del luogo e li promuove a nuova forma scritta attraverso il ricorso ininterrotto ad una voce narrante (di chiara derivazione cinematografica, come i suoi continui sguardi in macchina) attraverso la quale la protagonista ci racconta il suo mondo, costantemente minato dalle continue sopraffazioni degli adulti. Parlando degli scrittori della sua generazione e facendo un riferimento non tanto velato al suo lavoro Atzeni, proprio a proposito della lingua, ci dice: "
I giovani scrittori d’oggi hanno fatto una vera e propria rivoluzione linguistica, usano un parlato spontaneo, immediato, emotivo. Ed è la prima volta. Prima il parlato era solo quello dialettale. La lingua italiana è una lingua da laboratorio. E i giovani scrittori cercano di arricchirla, rendendola più vicina al modo di parlare reale. Che i dialetti siano importanti lo dimostra il fatto che le migliori espressioni della letteratura italiana nel dopoguerra hanno tentato questa via. Pensi al milanese di Gadda, al romanesco di Pasolini. E per il sardo vale lo stesso discorso. La lingua si mescola al dialetto ed è un arricchimento indispensabile"
Quando ho terminato il lavoro di promozione di Sonetaula, figlio anch’esso di un adattamento letterario (che tradiva volutamente la lingua scritta del romanzo per riguadagnare quella parlata del mondo evocato dallo scrittore), ho riletto per la terza volta Bellas Mariposas con l’idea finalmente di provare a tradurlo in immagini. L’ho letto ripetutamente, per misurarne la tenuta, e per vedere - come si dice in gergo - se “arrivava” ancora, cercando di isolare un traliccio su cui poi edificare la sceneggiatura. Il miracolo si è ripetuto sempre, ad ogni lettura, come per incanto: senza mai dissolvere fino in fondo, però, il dubbio che il racconto potesse rimanere pertinenza esclusiva della letteratura, e non solo per l’uso quasi sperimentale della lingua.
La sua audace forma narrativa, che rinuncia alla punteggiatura e si dipana attraverso una serie di schegge dalla cui somma si ricava la giornata particolare di Cate e Luna, si sviluppa senza evidenti rapporti di causa ed effetto tra gli avvenimenti lasciando l’obbligatorietà dell’azione al semplice scorrere delle ore fino all’epifania finale della maga e al colpo d’ali che ne segue, quando le due protagoniste, le due mariposas (farfalline) prendono pian piano coscienza della propria condizione.
Ho raccolto tutte le suggestioni che il testo man mano mi forniva in una sorta di breve scaletta, diventata col tempo un diario di bordo, e poi - dopo una prima versione della sceneggiatura - ho voluto scriverne un’altra che tenesse conto di un mio lungo soggiorno nei luoghi e tra le persone che hanno ispirato il racconto. Un soggiorno che ha coinciso con la mia esperienza didattica nelle scuole dei quartieri periferici di Cagliari (confluita nell’esperienza di Tajabone), dove il caso ha voluto essere generoso, facendomi conoscere gli ambienti e gli interpreti giusti.
Salvatore Mereu