GIPI - Dal fumetto al cinema, una vita disegnata male
Per gli amanti del fumetto italiano, Gipi è una sorta di mito.
Da molti anni ha saputo imporsi sullo scenario internazionale come uno dei più importanti autori di graphic novel.
Nel 2011 è passato dietro alla macchina da presa con "L'ultimo terrestre" e da allora il cinema non lo ha mai abbandonato.
Gli esordi, gli errori, le gioie, le sperimentazioni, i progetti futuri.
Un'intervista alla scoperta del Gipi di ieri, oggi e domani.
Prima ancora di esordire con “L'ultimo terrestre” hai mosso i primi passi nel cinema realizzando cortometraggi con la “SantaMariaVideo”. Quando è cominciato tutto?
Ho iniziato a fare filmini in super8 quando avevo sei o sette anni. Prendevo i miei amichetti, li vestivo da cowboy, con tanto di stivali delle mie sorelle, e li dirigevo. Poi iniziai a fare i film in stop motion con i Big Jim, e a diciotto anni qualcosa di più serio, montando con una moviola che mi aveva regalato mio padre. Poi ho mollato tutto perché il super8 era impossibile da usare e non c'erano più i sistemi per svilupparlo. Ho ricominciato nel 1999 con una telecamerina digitale e un software di montaggio, girando un corto in cui io e il mio amico Federico Penco dovevamo lavare i piatti insieme, ma iniziavamo a litigare finendo per assassinarci a coltellate. Ero affascinato dall'idea di realizzare i titoli di testa e di coda, di poter montare io stesso, e allora abitavo a Santa Maria del Giudice e mi venne in mente di chiamare la casa di produzione “SantaMariaVideo”, che in realtà era casa mia.
Un giorno è entrata nella tua vita la “Fandango”, e da lì si è aperta un'altra porta per la tua carriera. Come sei entrato in contatto con Domenico Procacci?
Un giorno mi chiamarono dalla “Coconino”, la casa editrice per cui collaboro, e mi parlarono dell'arrivo di un nuovo socio, dicendomi di volermelo far conoscere, non potendomi però dire di chi si trattasse. Mi dissero che dovevo andare a Roma, per incontrarlo, e io feci l'antipatico, gli risposi che non mi sarei mosso per uno sconosciuto e che se avessero voluto, me lo avrebbero dovuto portare a casa. E infatti me lo portarono a casa. Quando lo vidi in stazione a Pisa lo riconobbi perché lo avevo visto in tv. Penso di averci fatto amicizia in trenta secondi. Mi domandò se mi andava di provare a girare qualcosa, e credo che fosse sicuro che avrei fatto un film tratto da uno dei miei libri. Domenico mi fece questa offerta in un momento in cui io non riuscivo più a lavorare con i fumetti. Non mi venivano più né i disegni né la scrittura, e soprattutto mi accorgevo di ripetere cose che avevo già fatto. Ho fatto fumetti perché ho la smania di raccontare storie e perché era il modo più semplice, ma la voglia “cinemosa” ce l'ho sempre avuta, e quando mi è arrivata un'offerta così non ce l'ho fatta a dire di no.
Per il tuo esordio perché non hai voluto pescare tra le tue storie a fumetti?
Perché per me i miei libri sono dei lavori finiti. Ogni tanto mi viene in mente che sarebbe bello fare “Appunti per una storia di guerra” in animazione, però poi so che il fuoco che c'era quando ho fatto il libro probabilmente non ce lo riavrei, e a me interessa quello. Quando Domenico mi ha chiesto di scrivere un film, ci ho provato, ma mi venivano delle ripetizioni, perché in quel momento non avevo una storia mia, avevo perso la voce. E poi avevo paura, perché io ho sempre lavorato su basi autobiografiche e nella mia testa il cinema era una cosa che aveva una diffusione molto più vasta del fumetto. Mi dicevo che se avessi raccontato i fatti miei come in “La mia vita disegnata male”, avrei finito per farmi troppo male. Quindi scrivevo roba e la buttavo subito dopo, oppure pensavo a cose che con il fumetto avrei potuto fare ma che con il cinema risultavano troppo complicate, come una storia ambientata in Terra Santa nel 1200.
E invece dietro a “L'ultimo terrestre” si cela la graphic novel “Nessuno mi farà del male” di Giacomo Monti. Cosa ti colpiva in quella storia?
Quando ho letto “Nessuno mi farà del male”, ho pensato immediatamente che fosse un racconto perfetto dell'Italia di oggi. C'erano due cose che mi spingevano verso quella storia. Intanto c'è un lato buffo, perché nel 2001 avevo fatto un cortometraggio che si chiamava “Vaffanculo del terzo tipo”, dove ci sono gli alieni che arrivano nella campagna pisana e la gente del posto li piglia a sassate, urlandogli “dovevate arrivare negli anni '60, che ci siete venuti a fare ora?”. Quel tema lì, del “troppo tardi” era presente nel volume di Giacomo e mi affascinava l'immagine di un popolo a cui non interessa più niente. Poi c'era la questione politica, non troppo secondaria. Avevo l'idea che non sarebbe mai cambiato nulla, in nessuna maniera, mai, una cosa tipo Berlusconi fino alla fine dei suoi giorni. Oggi sono piacevolmente sorpreso da come il mondo cambia, per quanto possa cambiare in modo terrificante. Chiaro che se eri un ebreo polacco nel '39 il mutamento ti sarebbe piaciuto meno della stasi, per cui aspettiamo di vedere come andrà. Di certo quella sensazione di palude morta era poco stimolante, mentre questa follia di oggi mi piace, ma al tempo stesso mi fa anche molta paura, perché non ho più l'età per delle derive troppo pazzoidi della società.
Quindi, dopo quanto successo in seguito alle ultime elezioni, forse non avresti girato quel film. I nuovi arrivati nella politica italiana, il Movimento 5 Stelle, Grillo e Casaleggio ti ispirano qualche idea cinematografica?
Per questo momento politico sto scrivendo una cosa. Un mondo post guerra batteriologica dominato dalla mistica e dove non esiste più la logica. Protagonisti sono i ragazzi appartenenti alla quarta generazione dopo la guerra, i primi ad essere nati fuori dai bunker in un mondo fatto di sciamanesimo, di veggenti, dove ogni cosa viene interpretata in senso mistico e la gente campa mangiando pesci tossici. Non so se durerà questa idea. Le idee vengono, ma solo le più forti sopravvivono. Le possibilità che questa non lo sia sono altissime.
Cosa hai portato nel cinema della lunga carriera da fumettista?
Le inquadrature, cioè un minimo di capacità nel sapere dove mettere la macchina da presa. Da un punto di vista di scrittura gli errori, che nel fumetto riesco ad aggiustare in fase di realizzazione delle tavole e nel cinema me li sono portati fino in sala. Quando scrivo penso che esistano solo le parole, quando inizio a realizzare i fumetti appaiono milioni di parole in più, poi però andando a disegnare mi accorgo che basta fare un'espressione ad un personaggio per levare un blocco di testo. Nel cinema è diverso e mi accorgo solo ora che nel film d'esordio ho avuto una scrittura storta, perché non mi rendevo conto che con l'immagine avrei potuto raccontare di più.
Il secondo film a cui hai lavorato è “Smettere di fumare fumando”, un prodotto a cavallo tra il documentario e il video-diario. Da dove nasce l'idea?
Il film è l'equivalente in video di parti de “La mia vita disegnata male”, non perché ho voluto avere lo stesso approccio formale, ma perché ho usato lo stesso processo mentale. Ne “La mia vita disegnata male” scrivevo e raccontavo delle cose per capire perché fossi diventato ciò che ero diventato, e in “Smettere di fumare fumando” ho usato lo stesso tipo di approccio per capire perché mi volevo fare venire un cancro ai polmoni o alla prostata. E' lo stesso tipo di meccanismo, avrei potuto girarlo anche con il DAS in stop motion, per quello dico che somiglia ai miei fumetti, non tanto per come è a vedersi, ma perché ho usato me stesso come pupazzo e poi sono andato di intimità senza freni. Nei libri non ho avuto mai grossi guai a farlo, sul film purtroppo mi sono accorto che è di una pericolosità infame.
A che genere di pericolosità fai riferimento?
Quando lavoro a storie personali, penso che tutti mi vogliano bene, come io ne voglio a loro, anche se non è così. Un libro a fumetti si legge comodamente sul divano, con i tempi che si vuole, andando indietro con le pagine, ritornando avanti, mettendo musica o stando in silenzio, creandosi un momento personale. Un film come “Smettere di fumare fumando” è andato a Torino, in un festival di cinema dove molti sono lì per fare gli spadaccini. Io ci ho solo messo la mia faccia, la mia bruttezza, mia madre, la mia fidanzata, e la prima recensione che ho letto quando sono uscito da quell'esperienza diceva una cosa tipo “ma a chi la vuole dare ad intendere questo Gipi, ma davvero pensa che qualcuno creda che lui ha fatto quella cosa come dice di averla fatta”. Mi negavano la sincerità, che è l'unica cosa che c'è dentro. E ho realizzato di avere sbagliato, perché non dovevo mettere il cuore lì davanti a tutti, soprattutto con quella forma non protetta, contorta, attaccabile da tutti i lati.
In ogni caso questo secondo film rompe completamente con lo stile più “ordinato” che caratterizzava il primo. Da cosa sei stato mosso nel portarlo avanti?
Era una sorta di reazione a “L'ultimo terrestre”. Non mi piace pensare che quello andò male perché c'erano poche copie, mi piace pensare che non fosse abbastanza bello. Non credo nemmeno che sia stata la mancanza di attori super famosi, anche perché che io sappia in Italia uno star system vero e proprio non c'è. Quando Gianni Amelio mi ha invitato a Torino in concorso, pur capendoci poco di festival, ero contento di concorrere con un film costato trecento euro. Andavo a fare a cazzotti con un prodotto del genere, mi piaceva, ci sono cascato. E invece probabilmente non dovevo. Forse era un momento in cui cercavo lo scontro.
Poco prima di “Smettere di fumare fumando” avevi iniziato a lavorare ad un serial, “La teoria dei tre colpi”. Che fine ha fatto quel progetto?
Da dodici anni sono ossessionato da un'immagine precisa, quella di due ragazzi su una baracca da pesca abbandonati dal mondo in povertà assoluta, che vivono di stenti. Era una delle cose che ero riuscito ad infilare ne “La teoria dei tre colpi”, una storia che dopo “L'ultimo terrestre” iniziai a scrivere con Roan Johnson. Era una cosa che pensavo potesse funzionare, ma non c'è nulla di più abbietto di fare qualcosa solo perché “potrebbe funzionare”. Quando l'ho capito mi sono vergognato. In Fandango il progetto era piaciuto e forse avrebbero potuto realizzarlo. Ma ero io a sentirmi male. Attraversavo l'ennesimo momento in cui la scrittura mi usciva fasulla. “Smettere di fumare fumando” è la risposta a quel momento lì, in cui sapevo che se avessi fatto una cosa simile avrei perso quel poco di spirito che ho. Avevamo girato quattro giorni, e ci avevo tirato fuori un trailer di dodici minuti, ma il tutto si è chiuso lì. Mi è però servito, perché è parte di un percorso, come lo stesso “Wow”, il mio nuovo film, una strada che potrà anche portare a non fare cinema, ma di sicuro è una strada. Mi dispiace per Roan, che ho fatto impazzire per niente. Mi vergogno un po'.
Cosa hai scelto di raccontare in “Wow”, la tua nuova avventura produttiva low budget?
E' la storia di uno convinto di essere un uomo di successo, che scopre di non poter avere figli e precipita in un abisso dal quale deve riuscire ad uscire, cercando di trovare un motivo per stare al mondo quando ti pare che la natura non ti ci voglia. Il tutto è trattato in modo molto buffo ma con un finale che a me fa piangere. Il titolo provvisorio iniziale era “Il dolce su e giù”, concetto che nasce dalla forma che prende spesso il mio umore. Avevo iniziato a lavorare su quello, poi il tema del film si è spostato sulla morte, perché parla della morte di mio padre, del momento in cui mi dissero che non potevo avere figli e di come ho comunque trovato un posto nell'universo. Per me è stato un piccolo miracolo produttivo. Sembra quasi un film, ma è stato fatto senza soldi.
28/03/2013, 18:58
Antonio Capellupo