Note di regia del documentario "Arcipelaghi"
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…Un arcipelago è un gruppo di isole.
Gli arcipelaghi si trovano generalmente in mare aperto, più raramente vicino ad un continente. Sono spesso di natura vulcanica, e si trovano quindi spesso lungo le dorsali sottomarine o i punti caldi, ma ci sono molti altri processi che possono generare questo fenomeno, tra i quali l'erosione e il deposito di sedimenti…”
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Arcipelaghi” nasce nell’Aprile 2012 come progetto di diploma del corso di visual storytelling che ho frequentato presso la Danish School of Media and Journalism di Aarhus, Danimarca. Ero appena tornato a Napoli, deciso a realizzare lì il mio lavoro: volevo affrontare quella stessa città che difficilmente fino ad allora ero riuscito a coinvolgere nei miei progetti, che difficilmente ero riuscito a fotografare.
Le lezioni ed il tempo trascorso in Danimarca avevano però ulteriormente evoluto il mio approccio con le immagini verso una direzione più che mai aperta al dialogo con altre forme narrative. Consapevole delle difficoltà, ero tornato con l’idea di sviluppare un lavoro sugli effetti “indiretti” delle rivolte arabe, ovvero su quell’esercito di uomini e donne in fuga dal Nord Africa che già dal Marzo 2011 affollavano il porto di Lampedusa. Avevo scoperto che la Protezione Civile –lo Stato- stava gestendo l’emergenza (70.000 ingressi nell’arco di 6 mesi) attraverso la momentanea sistemazione dei richiedenti asilo presso diversi hotel della penisola, con l’intento di procurare minore disagio e dunque accelerare la macchina burocratica per il rilascio dei soggiorni.
L’Hotel Crystal è solo uno dei 15 hotel nell’area della stazione ferroviaria di Napoli ad accogliere i migranti: da circa un anno ognuno di questi alberghi è pieno (con giustificato compiacimento degli albergatori coinvolti in questa strana faccenda). I nomi degli hotel cozzano goffamente con l’atmosfera reale all’interno di essi. Luxor, Crystal, Garden, Plaza, Esedra, Hotel La Pace…Tutti questi CIE ben arredati sono da un po’ di tempo a questa parte le nuove case (temporanee) di Yussuf, Mohamed, Agil, Mamadou da Nigeria, Mali, Libia, Egitto, Marocco, Eritrea, Somalia.
Ho iniziato a frequentare il Crystal, un piccolo anfratto tra due palazzoni, della larghezza di due stanze ma molto alto, proprio di fronte gli uffici della CGIL. Sono andato lì ogni giorno per un paio di settimane, il tempo necessario perché barriere linguistiche (nessuno parlava italiano) e burocratiche (avrei dovuto fare trafile di richieste ufficiali solo per accedere alla sala svago) prendessero il sopravvento; passavo intere giornate a tradurre in italiano le lamentele del gruppo nigeriano per il cibo scadente o le lamentele del gruppo somalo per il mal di testa costante. Non avevo mai speso tanto tempo tra la reception e l’ingresso di un hotel prima di quel momento: volevo ascoltare ognuna delle storie in quel luogo, socchiuse dietro la porta della stanza 303, della 521, 72…Non avevo “accesso” ne tutto il tempo necessario… e la mia bravura, in quel caso in particolare, stava proprio nel misurare e contestualizzare rigorosamente sensazioni e dati, incontri e sguardi, momenti di verità o di noia sconfortante in poco, pochissimo tempo. Quando un giorno, parlando con Johnny, un ragazzo egiziano receptionist dell’Hotel, scoprimmo di avere un amico in comune: Mohamed. Johnny mi disse che stava lavorando per conto di un’associazione proprio in quell’hotel, offrendo ogni tipo di aiuto ed assistenza, accompagnando gli ospiti presso la commissione territoriale incaricata di rilasciare i documenti o accompagnandoli all’ospedale per le dovute cure oppure “semplicemente” per tradurre dall’arabo all’italiano. Lo incontrai la sera stessa, vomitandogli tutti i miei dubbi e i miei progetti.
Mohamed è da anni un mio caro amico. L’ho conosciuto per via dei Kebab, che lui con solerzia preparava nel vicolo dietro il mio liceo in un posto che si chiama Vite Vite, veloce veloce. Spesso dopo scuola o anche la sera passavamo tempo insieme, quello che gli rimaneva una volta finito con le piastre bollenti.
Mido, così lo chiamiamo, è arrivato 8 anni fa in Italia, scappando dal suo Egitto che a tutti i costi lo voleva figlio del suo esercito… A 17 anni lasciò famiglia e affetti in cerca “di una nuova vita”, o semplicemente di qualcos’altro. La solita sfida al mare, Lampedusa, qualche giorno nel CPT di Crotone, la fuga all’alba dal CPT di Crotone, l’arrivo a Milano –la fuga da Milano, l’arrivo nella caotica Napoli. Non esattamente quello che ogni adolescente si prefigge di fare, così, se potesse scegliere.
Tutto questo, lui, un giorno di qualche anno fa decide di metterlo nero su bianco. Vuole scrivere un libro. Nel frattempo Mido svolge mille lavori –tutti rigorosamente in nero, tutti rigorosamente precari- e fa il possibile per vivere da 25enne.
Cerca lentamente di ricomporre quello strano puzzle di ricordi, immagini e desideri nell’intento di poter dichiarare “vissuta” quell’esperienza, filando quella fitta maglia di memoria e presente che da ragazzo che era lo immagina uomo che diventa.
Pare che le leggi Egiziane non accolgano proprio col “bentornato in patria” un loro figlio disertore (o sognatore, fa lo stesso): devi avere compiuto 31 anni (perché 31?) se vuoi tornare nel tuo amato paese. Non importa se i tuoi genitori e parenti sono diventati la voce gracchiante nelle cabine del taxiphone o se i tuoi fratelli e sorelle crescono, ma non hai le fotografie aggiornate o se il tuo paese è chiamato ad alzare testa e voce per scacciare i tiranni e tu partecipi al massimo attraverso i social network.
Perché se c’è un sentimento che il mio film affronta, quello è la distanza, l’attesa, la sospensione: paradossi, questi, in epoche di comunicazione totale, globalizzazione decentrata e socialità interplanetaria.
Il nostro film è dunque sulle “isole” che un uomo migrante attraversa, sul senso di appartenenza che, seppur vacillante ogni giorno celebra l’esistenza di un viaggiatore in cerca di meta.
In questa circostanza un viaggiatore sul limbo, geografico e psicologico, di chi sente il proprio destino perdersi tra gli stessi arcipelaghi. Perciò un giorno uno sale su una statua, magari sulle orecchie di un re, di un generale di marmo e cerca di vedere oltre il palazzo… A Napoli, oltre il palazzo, c’è il mare. E allora è lì che si torna per farsi trasportare dalle parole che come onde si susseguono nel racconto. Il racconto di uno che si fa necessariamente immagine e parola di molti, per un attimo impressi sulla pelle…
Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All’orlo della pioggia, una vela.
Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un’intera razza.
La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena una nuvola grigia:
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolare del mare.
Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell’Odissea.
“Mappa del nuovo mondo / Arcipelaghi”, Derek Walcott
Martin Errichiello e
Gabriele Sossella