Note di regia de "Lo Stato della Follia"
Quando nel novembre del 2010 sono stato invitato a realizzare dalla Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale un breve documento video sullo stato degli O.P.G., come quasi tutti gli italiani, non sapevo cosa fossero. O.P.G., cosa si nascondeva esattamente dietro quell’acronimo che non ricordavo di avere mai sentito prima? “Ospedali Psichiatrici Giudiziari”, mi era stato risposto, credendo di aiutarmi. Si trattava di manicomi? Impossibile: i manicomi erano chiusi ormai da più di trent’anni! Luoghi di cura? Il dubbio mi avrebbe accompagnato ancora per poco. Ci eravamo attrezzati, io ed il mio operatore, anche con videocamere nascoste: “Dovete stare attenti”, qualcuno ci aveva detto “quelli sono matti!” e a quei “matti” avrebbe potuto dar fastidio essere ripresi: avrebbero potuto innervosirsi, tirare qualche sganassone.
Le riprese all’interno degli O.P.G. sono state effettuate durante sopralluoghi a sorpresa, veri e proprio blitz. Per la prima volta gli uomini chiusi là dentro avevano l’opportunità di gridare fuori, al mondo, il loro stato, il loro disagio, quello umano prima ancora di quello psichico. Il primo impatto è stato devastante: celle piccole e sporche, servizi igienici rotti, puzza di piscio ovunque. Gli internati, liberi per i corridoi, ci sono apparsi decisamente innocui, nonostante gli avvertimenti della polizia penitenziaria e dei N.A.S. al seguito della Commissione. Alla vista delle telecamere hanno comincia- to a venirci incontro, alcuni raccontandoci la loro storia, altri chiedendo aiuto, altri ancora, imbottiti di farmaci, si limitavano ad osservarci con sguardo supplichevole dal fondo dei loro letti sudici. Avvertivo la necessità di fare ore di riprese, corridoio per corridoio, cella per cella, internato per internato. Già, tecnicamente si chiamano internati, e dovrebbero essere tutti “matti”. Ma allora perché la maggior parte di queste persone stava ragionando e argomentando in modo coerente e sensato? Le riprese negli O.P.G. sono come un esame endoscopico nei meandri mai esplorati del corpo della Repubblica Italiana. Una Tac al sistema Sanitario gravemente ammalato di una malattia da sempre ignorata e/o trascurata. Gli internati in fondo ci hanno davvero preso a sganassoni. Non con le mani, ma con le loro storie. E ci hanno fatto male.
Nella relazione stilata dopo il primo sopralluogo, la Commissione ha riportato le nostre stesse impressioni. Comprese quelle che le telecamere non potevano documentare. Quell’odore nauseabondo, ad esempio, dovuto, come scrive la Commissione, «alla presumibile presenza di urine sia sul pavimento che sulle lenzuola». O quella «sensazione di abbandono», la sensazione di essere finiti dentro un meccanismo giuridico che dispone dei corpi nel modo più arbitrario. Tornare a casa da quei posti è stato un incubo, carico di urla, strazi, odori, sofferenze, occhi e mani che non si scollavano di dosso. Ogni volta uscire era insieme un sollievo e una condanna: il pensiero impotente di lasciare quelle persone alla loro non-vita, mi tormentava. Ma cosa potevo farci io? Ero il regista di un film i cui interpreti non erano attori ma donne e uomini, dimenticati da tutti. Lì dentro, infatti, non ho ripreso semplicemente dei volti, non ho registrato solo delle voci, ma ho filmato le maschere allegoriche di uno Stato che le aveva tenute nascoste fino a quel momento. La maschera del terrore, dell’abbandono e della miseria umana.
Nel documentarmi sulla questione O.P.G. ho conosciuto il caso di Luigi Rigoni, un attore, ex-internato ad Aversa. Una storia kafkiana la sua. Anche Luigi non aveva mai sentito parlare di un ospedale psichiatrico giudiziario. Ma lui, a differenza mia, ci si era trovato rinchiuso da un giorno all’altro senza neanche aver ben capito perché. E il film è fatto anche di questo: di un uomo come tanti, che decide di lasciarci in eredità la sua storia, a futura memoria, perché avventure di questo tipo, viaggi nell’inferno senza ritorno, non accadano più a nessuno. Ecco, il mio documentario lo dedico a loro, a quelli come lui, a coloro che hanno resistito per raccontarlo. E a tutte le persone che invece hanno deciso con lucidità di porre fine alla loro vita dentro l’ospedale psichiatrico giudiziario, che hanno ritenuto l’uccidersi l’unico modo per uscire dall’O.P.G.
Francesco Cordio