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GIULIO ANDREOTTI - Amore (e odio) per il cinema italiano


Molti furono i punti di contatto tra Andreotti e la settima arte, dalla legge del '49 alle "antipatie" per il Neorealismo. Celebre divenne poi il "c’eravamo tanto amati" con Federico Fellini, un rapporto di profonda stima e amicizia tra "il Divo" e "il Maestro". Andrea Minuz, autore del volume "Viaggio al termine dell'Italia - Fellini politico", ne ha dipinto un quadro dettagliato per Cinemaitaliano.info.


GIULIO ANDREOTTI - Amore (e odio) per il cinema italiano
Lo chiamavano Il Divo perché infondo il nostro Star System è quello della politica, mica del cinema. Il cinema italiano però gli deve tanto. Tra i pochi che lo riconoscevano c’era Fellini.
Così, mentre tutti ora ricordano la polemica con De Sica, il film di Sorrentino o la comparsata democristiana per il grande elettore Sordi nel Tassinaro, noi qui si racconta delle lettere che si scrivevano il Divo e il Maestro. Quelli che hanno fatto La dolce vita.

C’è l’Andreotti nemico del neorealismo, come vuole la vulgata. Quello dei tagli ai film di Rossellini e dei «panni sporchi che si lavano in casa», la celeberrima frase rivolta al De Sica di Umberto D. , mai pronunciata da Andreotti e proprio per questo entrata nella leggenda. Un po’ come con Il Divo, di cui disse che andava benissimo per carità, anche se Sorrentino «mi fa parlare con persone che non ho mai conosciuto davvero».

Al giovane sottosegretario Andreotti, "Umberto D." non piaceva perché contrastava con il rilancio dell’immagine dell’Italia che aveva preso a cuore con la delega allo spettacolo. Non era sensibile alle neorealistiche denuncie di De Sica e tantomeno del comunista Zavattini – «Se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi è pur vero che se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo…» eccetera, eccetera; così disse Andreotti. Per lui il cinema era anche una formidabile macchina promozionale. I film neorealisti mandavano in visibilio gli intellettuali francesi, per carità, però non facevano venire voglia di venire a spendere soldi o investire nel nostro Paese. C’avrebbe pensato lui.

Senza la legge voluta da Andreotti nel 1949, che incoraggiava le produzioni americane a girare in Italia ma le obbligava a lasciare da noi il 3% dei ricavi, gran parte del nostro boom cinematografico – che negli anni 60 ci avrebbe portato ad essere secondi solo agli americani, roba impensabile oggi – non l’avremmo mai visto. Di sicuro, non ci sarebbe stata alcuna Hollywood sul Tevere e nessun via vai di star del cinema a via Veneto. Non ci sarebbe stata "La dolce vita". E qui arriviamo a Fellini.

Fellini non ha mai fatto mistero della sua fascinazione per Andreotti. Una fascinazione anzitutto letteraria («sembra un personaggio da corte shakespeariana», diceva, «ma con due occhietti piccoli che ti guardano come provenissero da un altro pianeta, sembrano progettati in un oscuro laboratorio»). Infondo, non potevano non piacersi il «Divo» e il «Maestro». Due carriere formidabili nell’italianità, due monumenti viventi del Paese. Emblemi della gestione del potere e dell’arte, entrambe incarnate nell’accezione metafisica di enigma, mistero, ambiguità.

Nel 1993, pochi giorni la morte del regista, Andreotti confessava in un’intervista a “Repubblica”:
“Era amico di Fellini? «Moltissimo. Ho delle lettere bellissime. L’ultima è recente ed è straordinaria. In occasione delle mie vicende diciamo così giudiziarie, mi telefonava spesso, è da Fellini che avuto le parole più belle di solidarietà». Posso vedere quell’ultima lettera? «No, meglio di no. Direbbero che sono un fanatico, che voglio sfruttarlo… Venga a trovarmi un’ altra volta e gliele mostrerò»”.

Francesco Merlo, che faceva l’intervista, non c’è più andato e probabilmente se n’è dimenticato.
Delle lettere non si è più parlato, fino a quando lo scorso anno non mi è stato permesso di consultarle. Erano in un fascicolo a parte, a casa di Andreotti, non ancora catalogate nell’archivio (se ne parla più in dettaglio qui http://www.store.rubbettinoeditore.it/viaggio-al-termine-dell-italia.html). Comunque, Fellini e Andreotti iniziano a scriversi nel ’74, sulla scia del successo internazionale di Amarcord:

«Caro Fellini leggo con gioia il suo grande successo americano. È un avvenimento positivo anche per l’Italia, di cui la stampa usa non si occupa normalmente che per cose che vanno male». Così Andreotti in un biglietto di auguri datato 7 ottobre 1974. Che gli sarà sembrato una specie di risarcimento postumo, dopo "Umberto D.".

Poi il rapporto si intensifica, passano al “tu”. Si parla di arte, politica, cinema, ma pure di Franco Evangelisti. Caro Giulio – scrive Fellini – «mi invitano a far parte del Consiglio Generale della Fondazione per la Sezione Arte e Spettacolo. Può farmi sapere, tramite l’amico Evangelisti, se è una cosa che la interessa vivamente, oppure se è una delle tante iniziative nelle quali la coinvolgono suo malgrado?».

Andreotti penserà a Fellini anche per l’Istituzione culturale «Casa di Dante» (di cui era Presidente in carica dal 2010). Il segno di una stima reciproca che trova una sua immagine simbolica nella richiesta di Fellini di ricevere il Leone d’oro alla carriera solo e soltanto dalle mani del Presidente.

Nel fascicolo c’è una lettera di Gian Luigi Rondi indirizzata ad Andreotti che parla chiaro:

L’altro giorno al Quirinale, quando Fellini ha consegnato il premio “David” al presidente Pertini, gli ho ricordato che il 6 settembre la Mostra di Venezia gli consegnerà il Leone d’oro alla carriera che gli ho fatto votare dal Consiglio Direttivo della Biennale nella sua seduta dell’ottobre scorso. Mi ha garantito la sua presenza (cosa abbastanza rara) e mi ha detto che la sola persona da cui sarebbe felice riceverlo sei tu.

Chissà se Fellini era a conoscenza di come Andreotti, ai tempi delle feroci polemiche su La dolce vita in odore di censura democristiana, avesse preso silenziosamente le sue difese.

Nel fascicolo c’è una lettera dell’allora direttore e fondatore del «Secolo d’Italia», Franz Turchi, che chiede ad Andreotti un appoggio nel duro attacco contro il film di Fellini [“Nella certezza di poter fare assegnamento sulla tua collaborazione in una crociata che riteniamo sacrosanta tanto sotto il profilo nazionale che sotto quello morale e politicamente utile, restiamo in attesa”]. Resteranno in attesa a lungo. Andreotti tacerà.

Anche se Il Divo sognava «un cinema cristiano, che compensasse il primato culturale dei comunisti», nel suo cuore pragmatico aveva capito che quella contro la Dolce Vita era una battaglia persa in partenza. E che anzi, con quel bacio nella fontana, quelle orge e quei nobili viziati e annoiati, ci sarebbero piovuti addosso un sacco di soldi e di turisti in cerca di una via Veneto che esisteva solo nella testa di Fellini.

07/05/2013, 16:56

Andrea Minuz