UGO GREGORETTI - Dai ricordi di "Ro.Go.Pa.G." al prossimo film
Per chi ha vissuto gli anni '60, e ricorda con gioia e un filo di malinconia la buona tv prodotta da "mamma Rai",
Ugo Gregoretti rappresenta un mito assoluto.
Giornalista e regista, autore di cult televisivi come la rubrica "Controfagotto" e lo sceneggiato "Il Circolo Pickwick", Gregoretti è sempre stato in anticipo sui tempi, un innovatore per il piccolo e il grande schermo.
Intervenuto recentemente alla 31a edizione del Bellaria Film Festival per presentare il film a episodi "Ro.Go.Pa.G." che quest'anno compie cinquant'anni, il regista romano ci ha raccontato una serie di aneddoti legati ai suoi inizi nel mondo del cinema e ci ha dato qualche anticipazione sul suo prossimo film.
Come avvenne il suo passaggio dalla tv al cinema, da “Controfagotto” a “I nuovi angeli”?
Nel 1960 girai “La Sicilia del Gattopardo”, un documentario in cui optai per una serie di scelte che i documentaristi raffinati consideravano degli orrori, come la “peccaminosa” voce fuori campo, che vinse diversi premi e andò in onda sulla Rai. A quel punto, nonostante fossi ancora un dipendente della Rai con contratto da impiegato, mi fu accordato di fare una cosa che chiedevo da un po', una rubrica satirico-giornalistica che chiamai “Controfagotto”. Il programma colpì molto perchè era un modo nuovo di fare tv, e i produttori cinematografici nonostante la puzza sotto al naso televisivofobica, mi tennero d'occhio. Il 1961 era l'anno in cui avrebbero esordito Pasolini, i Taviani, Petri e De Seta, e a questo elenco inopinatamente venne aggiunto il mio nome quando mi proposero di fare un film, “I nuovi angeli”, che ebbe tra l'altro un'accoglienza a mio avviso favorevolmente esagerata. A propormelo fu Alfredo Bini che stava per iniziare a produrre il film di Pasolini e gli venne in mente di farmi fare un'inchiesta sui ventenni dell'era del boom economico. Io misi in piedi, senza una sceneggiatura, un viaggio per l'Italia all'impronta da Torino alla Sicilia, da Milano alla valle del Chianti, raccontando uno spaccato della condizione giovanile di quell'anno a tutti i livelli sociali. Era tutto costruito e oggi lo si definirebbe un mockumentary.
A chi venne in mente l'idea di realizzare il film ad episodi “Ro.Go.Pa.G.”?
Fu Rossellini a portare il progetto al produttore Alfredo Bini mentre stava finendo il suo esilio parigino. In Italia non era potuto tornare essendo un adultero conclamato, ma nello stesso tempo era diventato il cocco della Nouvelle Vague. Il mio primo film gli era piaciuto così tanto da aver chiesto di presentarlo alla prima edizione della “Semaine de la Critique” a Cannes nel '62. In quel momento la scuderia di Bini era composta da Pasolini che aveva fatto “Accattone” e da me che avevo un solo film alle spalle. Godard era quello che quando vide “India” di Rossellini al Festival di Cannes uscì dalla sala gridando “questo film è bello come la creazione del mondo” con Roberto che lo inseguiva dicendogli di non dire fregnacce. Quindi Bini si trovò per le mani questo quartetto.
Qual'era l'idea alla base del progetto originale di Rossellini?
Rossellini era il demiurgo del gruppo, e la sua intuizione era quella di realizzare uno spaccato del neonato consumismo italiano, cosa che alla fine non fece nessuno dei quattro tranne me. Roberto era quello che aveva le antenne più sviluppate e conosceva la filosofia americana riguardante questi fenomini. Da buon scolaretto ritenni doveroso attenersi alle sue indicazioni didattiche e mi lessi tutti questi libri, forse eravamo i soli in tutta Italia a conoscerli, mentre gli altri se ne fregarono.
Fu semplice per la produzione scegliere l'ordine degli episodi?
C'è da dire che Alfredo Bini considerava il mio e quello di Pasolini gli episodi riusciti meglio. Inizialmente la sequenza si era modellata proprio sull'acronimo “Ro.Go.Pa.G.”, ma poco dopo la produzione notò che il film non funzionava perchè i primi due erano due mattoni, e quando partivano gli altri due e il film iniziava a risollevarsi un po', era troppo tardi. Venne quindi fatto il tentativo di alternarne uno buono e uno cattivo partendo dal mio ma l'esperimento finì lì. Ci fu addirittura anche una terza prova, che vedeva il mio, i due malloppi e a chiudere “La ricotta”, ma non venne preso in considerazione neanche quello e si tornò all'originale.
Come fu accolto il film dalla critica del tempo?
Lo scrittore e critico Giuseppe Marotta, autore fra l'altro de “L'oro di Napoli” e non propriamente un progressista, scrisse una critica su “L'Europeo” e quella che vide era la versione del film che iniziava con il mio episodio. Parlò male del film ma alla fine elogiò solo il mio lavoro con un “Tognazzi da cineteca”, e concludendo diceva di comprare il biglietto, vedere il primo episodio e poi uscire, perchè sarebbero state cinquemila lire spese bene. Questa cosa mi creava un grande imbarazzo e la cosa comica è che in Inghilterra è accaduta una cosa simile pochi mesi fa, perchè in seguito ad una riedizione del film è uscita una recensione di un critico che prima di vederlo pensava fossi il più fiacco tra i quattro autori e alla fine si è completamente ricreduto.
Nel suo episodio “Il pollo ruspante” fa una cinica critica al “Carosello”, capace di compiere un vero e proprio lavaggio del cervello degli spettatori-clienti, ma al contempo ha lei stesso realizzato dei Caroselli per la Rai. Come si spiega questo cortocircuito?
Il “Carosello” era un vero e proprio crinale dell'esistenza quotidiana. Vi erano alcuni registi come Visconti, Pontecorvo, i Taviani, Maselli e il sottoscritto, che con rigore escludevano dal proprio orizzonte poetico e pratico i filmacci commerciali e le commediacce. Io addirittura rifiutai un film con Sophia Loren! Quando uscì “I nuovi angeli” che ebbe questa grande risonanza, la Loren lo vide e Carlo Ponti mi invitò nel suo sontuosissimo ufficio sotto al Campidoglio dicendomi “la Sophia vorrebbe fare un film con lei, scelga lei”. Lo ringraziai ma non lo richiamai. Non potevo fare un film di quelli che rappresentano i “cinepanettoni” di allora, quindi rifiutai. Al tempo stesso bisognava però campare, e io avevo anche cinque figli voracissimi. Il “Carosello” era rigorosamente anonimo, guai a dire in giro che lo si faceva, anche se poi sono diventati un culto, e molti registi iniziarono a dirigerli. Io avevo acquisito una certa riconoscibilità come conduttore di “Controfagotto” e mi veniva posta come condizione di presenziare fisicamente nei Caroselli. Il risultato è che io sembravo l'unico regista di sinistra che vi prendeva parte, ma non era vero nulla, molti maestri lo facevano di nascosto.
Appartiene ad una generazione di autori che hanno fatto del cinema un'arma di impegno politico e sociale. Da questo punto di vista come le sembra che si stiano muovendo i registi del cinema contemporaneo?
Per noi della cosidetta ANAC, l'Associazione Nazionale Autori Cinematografici, di cui sono presidente perpetuo come Mr Pickwick ne “Il circolo Pickwick”, c'era alla base una precisa scelta politica. In quegli anni c'era un forte impegno comune accompagnato anche da grandi litigate, vedi l'episodio di Sergio Amidei che cacciò Ugo Pirro, ma alla base c'era un'intesa di fondo politico-culturale che oggi non esiste. Oggi c'è una specie di costellazione di individualisti e gli unici che conservano qualcosa della vecchia cultura e delle vecchie passioni sono ormai anziani e cinicamente dico che ne seppelliamo un paio all'anno e nel giro di pochi anni li avremo finiti questi padri fondatori. Oltre a Citto Maselli, Ettore Scola, Francesco Rosi e Giuliano Montaldo ne rimangono davvero pochi.
Quindi pensa che le vostre battaglie non siano minimamente paragonabili con quelle portate avanti oggi?
No, perchè negli anni '60 e '70 si era addirittura arrivata a mitizzare la presunta esistenza di un circuito alternativo. Si trattava di una controinformazione fatta contrapponendo al grosso cinema di consumo i nostri modesti film fatti gratis. Oggi questo è venuto meno, questo cemento che ci univa tutti nella convinzione che si potesse usare il cinema al servizio delle lotte operaie e sindacali. Io ci ho creduto realizzando film, ma oggi non credo possa esistere qualcosa di simile.
Ma in realtà in alcuni casi il cinema documentario sembra andare in quella direzione, di lotta e di informazione distante dalla “voce televisiva”, non crede?
Il cinema documentaro potrebbe riuscirci davvero se avesse delle ambizioni di tipo diverso. Mi chiedo provocatoriamente a chi sia destinato questo cinema che si produce e quale sia il suo pubblico, perchè mi sembra un cinema autoreferenziale. Quello che facevamo noi era mirato a dare un sostegno reale alle lotte sindacali. Il mio vanto era l'aver realizzato nel '69 “Apollon: una fabbrica occupata”, impostato con gli operai quasi come una commedia all'italiana dove si rideva e piangeva, perchè il primo dovere era farsi capire e riuscire a coinvolgere. Abbiamo poi fatto proiezioni in tutta Italia e alla fine facevamo come il parroco domenicale con la questua, scendendo in mezzo alla gente per prendere la solidarietà, raccogliendo decine di milioni che hanno consentito agli operai di prolungare l'occupazione.
Lei che è stato un vero innovatore nel campo della comunicazione, come legge il momento attuale dove tutto sembra essersi spostato quasi completamente sul web?
Ho un vigorso anticorpo che protegge la mia esistenza. Io vivo come se tutto questo non esistesse e non lo dico con arroganza. Quando sento chamare il 900 “il secolo scorso”, mi fa strano, perchè per me “il secolo scorso” è l'800. Quello che accade nell'ultimo scorcio del 900 non mi riguada più ed è come se non esistesse, ho difficoltà a leggere i messaggi sul cellulare, figurarsi sapere cos'è la rete, il web o youtube. Vivo con la massima serenità questo vuoto abissale di identificazione con i primi decenni del 2000.
Un paio di anni fa ha preso parte al progetto collettivo “Scossa” con Lizzani, Maselli e Russo. Crede che la sua carriera sia conclusa o possiamo aspettarci qualcosa di nuovo?
Un progetto c'è, ma inizia un po a spaventarmi perchè ci sono pochi soldi. L'idea è quella di ricavare un film da una mia autobiografia di alcuni anni fa recentemente ristampata. Si chiamava “Finale aperto”, ed era la storia della mia vita dal battesimo a oggi in una chiave “autosfottitoria”, realizzata così per prendere in giro alcuni miei colleghi che partoriscono delle automonumentalizzazioni veramente ridicole. Nel libro, ristampato con il titolo “La storia sono io”, parlo pochissimo del mio lavoro e già nella prima stesura era impostato come una sceneggiatura. In parte rilevante il film sarà realizzato con materiale di repertorio e l'Istituto Luce è entrato in coproduzione, pagando in natura. Io sarò regista di me stesso, ci sarà parecchia voce fuori campo e sarò in scena nelle mie fattezze e decadenze di ottantaquattrenne, ma dovendo raccontare la storia della mia vita dovrò trovare altri quattro Gregoretti più giovani. Sarà sicuramente qualcosa di sperimentale, che avrà al centro un personaggio con cinque metamorfosi fisiche e che già alla lettura secondo me riesce molto divertente. Mi dico se in fondo non sia impossibile che lo stesso tipo di divertimento possa arrivare anche ad uno spettatore cinematografico.
07/06/2013, 11:45
Antonio Capellupo