Note di regia del film "La Farfalla Granata"
Leggendo “La farfalla granata”, il bel libro di Nando dalla Chiesa e riflettendo sui materiali di repertorio disponibili due cose mi hanno impressionato: la prima, in quella generazione di ventenni ancora rispettosi delle regole di un paternalismo ottocentesco, il disagio manifesto di uno “zazzerutello di Como”, come lo definisce Gianni Brera, anticipa la trasformazione che avrebbe cambiato ben presto i rapporti tra le generazioni, tra padri e figli, quasi premessa al 68 e alla invocata “fantasia al potere”.
Io pure c’ero, ventenne inquieto in quegli anni 60, mi rivedo come in vecchie foto b/n, nel dolce ribelle di provincia che sognava Parigi e voleva fare il pittore.
E poi, la seconda, il fatto che quel ragazzo estroso e geniale, in realtà, come dice Dalla Chiesa, “giocava ad altro”. Ho cercato di approfondire cosa fosse “altro” dal pallone.
Questo alludere a ciò che sta sotto e che va scovato, ha guidato la mia indagine sul personaggio incarnato da Alessandro Roja con precisione millimetrica.
Di lui esistono gli eventi sportivi concreti, i gol capolavoro di fantasia, le vittorie sul campo, i rapporti tormentati con le tifoserie e i giornalisti acidi e conformisti.
Ma Gigi vive un altrove, soffre e gioisce per quel “altro” che apparentemente non ha rapporto col pallone, ma invece ne è integrazione coerente al suo essere campione e persona. Una sfida, un “altro gioco” che è in ogni istante contiguo al campo erboso, il “fuori”.
Come un bambino, fa del gioco la sua professione, e il gioco per il bambino, è sogno, fantasia. Gioco serissimo sulle cui regole non è disposto a transigere.
Lui dice di “non poter fare a meno del pallone”, ma non può fare a meno anche di “giocare” coi pennelli, ci si alza di notte per dipingere, non può fare a meno di “giocare” a vestirsi come un dandy estroso e anticonformista che gira con una gallina in braccio, nella disapprovazione della buona borghesia sabauda, non può rinunciare a “giocare” al “quinto Beatles”,- esibizionista e pagliaccio dicono di lui i benpensanti del mondo dello sport e non solo-, e soprattutto non può rinunciare a giocare al gioco più serio e ostinato della sua vita, difendere il suo amore per cui “mette in gioco” tutta la sua carriera. Pronto perciò a pagare le conseguenze assumendosi ogni responsabilità di fronte al mondo. Fermissimo sulle sue convinzioni come nei suoi affetti: la famiglia, e la donna che ama. Veniamo al film. Guardata in filigrana la vita di Gigi Meroni, pur brevissima, 24 anni, offre tutti i capitoli le risonanze e i personaggi per un racconto esemplare: il colpo di fulmine per “la bella tra le belle del Luna Park”, una vibrante Alexandra Dinu, la sfida al mondo conformista , gli ostacoli dell’ambiente e familiari, gli alleati che si trasformano in antagonisti e viceversa, con ravvedimenti inaspettati. Una “trama di formazione” esemplare e verosimile: “Essere omo in campo e fora!” lo esorta il triestino Nereo Rocco. In ogni storia narrata, se i protagonisti sono giovani e vitali esigiamo che si nutrano d’amore oppure di disamore, che l’accento sulla grammatica generativa ormonale sia ineludibile, che soffrano per guadagnare la posta in gioco, realizzare il loro progetto di vita. E “i vecchi hanno paura dei giovani!” come ammette Edmondo Fabbri. Il giovane Gigi per amore è disposto a tutto, lottare come un leone contro il perbenismo imperante, la meschinità provinciale dell’italietta degli anni 60. Sappiamo, in quanto parliamo di personaggio pubblico, di Gigi Meroni, che la sua vera posta in gioco è essere accanto alla persona amata contro tutto e tutti. La firma col sangue della sua ribellione profetica a un’epoca polverosa e obsoleta. Non una biopitch tradizionale, quindi, troppo breve il percorso di vita. Non so se è il film che lui avrebbe voluto, ma almeno, spero, un racconto devoto al “sogno” di un ragazzo-bambino che sognava altro da ciò che si voleva da lui.
Paolo Poeti