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Note di regia del documentario "I Fantasmi di San Berillo"


Note di regia del documentario
Sono entrato a San Berillo per seguire le “storie del sottosuolo” di quei personaggi di cui facilmente ci si innamora senza nemmeno bisogno di mitizzarli. Li ami per la loro bellezza dietro quelle maschere di dolore e il loro continuo innamoramento verso la vita; per la loro sorprendente capacità di leggere l’umano e nello stesso tempo la facilità con cui vengono tratti in inganno con le più irreali promesse; per il loro sperare nonostante tutto; per la loro capacità di aprirti il cuore come dei bambini e poi di essere crudeli come soltanto chi ha visitato l’abisso è in grado di essere, e per la facilità con cui alla fine riescono a ridere di tutto, della miseria ladra e di se stessi. Poi ho trovato un’altra storia, che scorreva sotto traccia, una storia che mi apparteneva più di quanto non mi appartenesse la prostituzione e i cui segni emergevano caoticamente, la storia di una città sventrata dal di dentro e che gli abitanti avevano rimosso: l’asportazione del cuore artigiano e popolare che ha alienato architettonicamente la città e il senso di realtà di chi ci vive. Di questa storia quei personaggi sono parte integrante nonostante la ignorino del tutto, testimoni indiretti che attraverso la loro “questione privata” ci proiettano nei paesaggi ipotetici di una città che “ripete i segni affinché qualcosa arrivi a fissarsi nella memoria”.
Non ho cercato di raccontare la storia di un quartiere, che è san Berillo ma potrebbe essere uno dei tanti quartieri popolari della vecchia Europa, con la linearità di una narrazione logica (perché ogni nostalgia è patetica e ogni presa di posizione un torto alla veridicità degli eventi), ma ho tentato di ascoltare le pietre, le insegne residue delle vecchie attività dismesse da decenni e ancora aggrappate ai cornicioni delle porte spesso murate; ho cercato le storie nei numeri civici senza alcuna corrispondenza, aggrappati a pareti restate in piedi solo per metà, seguendo i segni residui della vecchia città e lasciando che si intrecciassero tra loro, come fossero delle eco disperse tra i vicoli che ho provato a registrare, senza porre alcuna questione che non fosse linguistica.
Allo stesso modo, non ho mai pensato di realizzare questo film secondo le regole linguistiche del documentario d’osservazione, più o meno nobilitato dalle intenzioni d'autore e dal suo rapporto con i personaggi. Non soltanto per il già visto o perché sarebbe stata la strada più facile da seguire, o perché, data la natura della loro particolarità, quei personaggi sarebbero finiti inevitabilmente per apparire come le scimmiette dietro alle gabbie di uno zoo dove ci rechiamo per il nostro diletto, ma perché la scommessa era quella di realizzare una struttura drammaturgica inusuale in cui il soggetto non è un personaggio e le sue vicende, ma il quartiere. In questa ricerca è stato fondamentale la guida de “Le Città Invisibili” di Italo Calvino, maestro nel dare vita a soggetti inanimati, e l’incontro con un’altro fantasma del quartiere: la scrittrice Goliarda Sapienza. In questo modo i personaggi di questo film sono diventati per me i narratori indiretti di un mondo che non potrebbero raccontare a parole e che non conoscono, così come San Berillo è l’immagine riflessa delle loro intimità, di una verità solcata nei loro visi come nelle pareti scrostate del quartiere.

Edoardo Morabito