HABITAT [Piavoli] - La filosofia del
tempo nella campagna crepuscolare
Dal tempo condiviso insieme a
Franco Piavoli, nella sua grande casa di campagna, dall'osservazione degli oggetti, delle stanze, delle stampe e da una spensierata apertura del Maestro del "
Pianeta Azzurro", verso il gioco e la messa in scena, scherzosa di se stesso, nasce il documentario "
Habitat [Piavoli]" di
Claudio Casazza e
Luca Ferri.
Il film, ci svela la vita appartata ma serena di Piavoli che si è volutamente allontanato dalle scene da qualche tempo per immergersi in una riflessione personale molto attenta sul senso intimo e profondo del fare cinema indipendente. I due registi entrano in silenzio e a piccoli passi nella casa del regista, con riprese geometriche, pulite e a cavalletto ascoltano i tempi vuoti delle stanze, osservano la luce che entra dalle finestre, i rumori dell'esterno. Le tante stampe appese alle pareti e una collezione di piante essiccate, sono gli unici insert che accompagnano la lenta voce di Piavoli che parla dal suo buen ritiro che mi ricorda una delle tante case di campagna nell'ora di pranzo, quasi di memoria crepuscolare, gozzaniana.
L'intervista non è mai invasiva, non frontale, i tempi del montaggio televisivo e della cronaca descrittiva sono lontani, in Habitat non si vuole sviscerare velocemente la vita di Piavoli ma solo “stare”, sostare accanto a lui per qualche momento di condivisione umana. Dalle parole di Piavoli si capisce soprattutto il suo immenso amore per la natura, si parla poco della sua filmografia che viene a tratti ricordata con spezzoni di suoi documentari, ottima la mescolanza di vari formati nel montaggio; Super8, 16mm, fotografie, quadri, disegni. Ma tutto è molto dosato, pacato, molte inquadrature statiche della casa, mi ricordano gli still più astratti di Luigi Ghirri, per l'amore del vuoto, dell'ascolto e per la comunicazione con un “aldilà” che non si vede ma che il cuore attento dell'artista percepisce e capta come un segnale nel'aria. Per il regista l'essere umano può essere paragonato alle radici dell'albero, tutte protese a raggiungere il terreno migliore dove proliferare. Le radici infatti sotto terra si affiancano, proseguono con sforzo l'una accanto all'altra per sopravvivere, per non soccombere.
Piavoli è il regista che più da vicino ha incarnato nel cinema italiano lo spirito filosofico di Lucrezio, facendo dei film che potrebbero essere paragonati al "
De Rerum Natura", per l'indagine sulla “vitalità atomica dei materiali”. Da questo Habitat esce il concetto illuminante che la parola italiana “Tempo”, deriva appunto dal latino “Templum”, ovvero tempio, che a sua volta deriva dal greco “temneim” che significa “tagliare”. Il tempo della vita come quello cinematografico sono infatti divisi in dettagli e geometrie precise che scandiscono tutta la nostra esistenza. Casazza e Ferri hanno ben presente questo senso del tempo tarkovskijano, infatti tutte le inquadrature sono stupendamente composte con un gusto fine di minimalismo geometrico. Solo di sfuggita vediamo lo studio dove Piavoli monta i suoi film, una vecchia moviola per pellicola, come un elettrodomestico di uso quotidano, lasciato da una parte ma sempre pronto al riavvio. In una delle due o tre brevi interviste che sono state fatte al regista, mi pare proprio in quella finale, si parla del cinema come di un illusione dalla quale l'uomo/spettatore deve imparare a difendersi e a non lasciarsi troppo affascinare. Per Piavoli il cinema va considerato come una bellissima invenzione del XX secolo, una scoperta che ancora non è stata completata, e che delle volte può ingannare l'uomo perché ha un aspetto mitico, mitologico, prometeico, un istinto naturale verso ciò che si muove, che brilla e che da illusioni pericolose.
In questo documentario Piavoli si lascia poi dirigere, scherza con la troupe, strimpella su un piano forte mezzo scordato e partecipa volentieri alle riprese con la leggerezza del filosofo saggio. Trovo molto interessante anche la scelta delle lunghe dissolvenze in nero che intervallano le varie fasi del film, danno un senso profondo di spazialità e rimettono in contatto gli spettatori con i vari “elementi di percezione”.
29/10/2014, 19:52
Duccio Ricciardelli