Note di regia di "Mia"
Le storie si dice si incontrino dal tabacchino o dal giornalaio, è così che ho trovato MIA. Un ex pugile, un uomo solo e disperato a cui è stata sottratta la figlia, che non ha mai conosciuto per motivi legali e che, a un certo punto, decide di riprendersela. Lo spunto per questa storia è quindi reale, poi c'è il romanzo.
Il romanzo non può prescindere dalla mia biografia, sono nato e cresciuto a Dego, in Val Bormida fino all'età di 18 anni, per poi arrivare a Roma per il cinema. Ho trovato un'assonanza tra la storia del padre, certo un po' disgraziato, e il recente passato della Val Bormida dove sono cresciuto e dove abbiamo girato il film. Un’assonanza tra quello che è successo dopo il periodo di costruzione delle fabbriche degli anni sessanta, e l’idillio della cultura industriale che ha trasformato e straziato quella contadina e l’oggi, con la chiusura delle fabbriche e i valbormidesi che spaesati reagiscono emigrando o rifugiandosi nei loro fitti boschi.
Antonio, il protagonista, un ex pugile, agisce impulsivamente, rapisce sua figlia che mai ha conosciuto. Forse il suo è un gesto che nasce nel legame di sangue, qualcosa che lega un padre ad una figlia in modo indissolubile o forse è semplicemente un atto dimostrativo, verso la madre che li ha allontanati. Nella vita non tutto è lineare, succedono fatti che spingono le persone ad agire contro le regole, come per Antonio. Quello che a che sembra un gesto di violenza, allora può diventare un atto d'amore, disperato. Questo fa Antonio, rapisce sua figlia per poi essere costretto a riconsegnarla alla madre avendo realizzato di essere incapace di prendersene cura. Amore e violenza si sovrappongono e confondono. Il sangue e la terra si mischiano nello stesso modo. Mia è una metafora della trasformazione del nostro momento storico, tra recente passato di fasti e il presente di incertezza e rifugio di in cui Antonio Alice e la Madre sono drammaticamente i simboli e protagonisti.
Diego Botta