Note di regia de "Il nome del figlio"
Questo film non ci sarebbe stato senza la proposta testarda di Fabrizio nel farmelo accettare, e poi la fatica di chiuderlo economicamente con Benni e Marco, ed infine l’apporto fondamentale di Andrea, prima distributore poi entrato in produzione, e del mio fratellone acquisito Paolo che era pronto a menare le mani per me.
Sono tempi difficili, davvero i più difficili da quando ho cominciato a fare cinema. Ma le difficoltà ci danno gioia creativa, mica depressione. Avevamo poche settimane di riprese, allora abbiamo aggiunto settimane di prove. Ma non teatrali, cinematografiche. Ho chiesto di avere pronto il set principale come se già stessimo girando. Provavamo tutti i giorni negli ambienti alla presenza di Alessandro, lo scenografo, per arricchire di particolari vivi la casa di Betta e Sandro che sarebbe stata il cuore principale del racconto.
Abbiamo fatto entrare cinquemilacinquecento libri, e da lì abbiamo cominciato a costruire l’identità della famiglia Pontecorvo, un presente che contenesse il passato. Perché questi personaggi sono tutti, ognuno a suo modo, ammalati del desiderio struggente di fermare il Tempo. Fanno fatica ad accorgersi del mondo fuori che è cambiato, nostalgici dell’infanzia per l’illusione che siano esistiti tempi migliori. I progressisti divenuti conservatori, ma sfottuti dolcemente: siamo noi. Siamo ridicoli. Facciamo ridere, eccoci in commedia.
Con Fabio, il direttore della fotografia e Luigi, l’operatore di macchina, durante le prove abbiamo impostato luci e movimenti seguendo un’idea semplice, ma con tenacia: i nostri personaggi erano tableaux vivantes. Ritratti quasi rinascimentali in movimento. I cinque personaggi cartacei, provenienti da una pièce teatrale, (leggetevi le belle note di Francesco), li ho immersi dentro il corpo e il cuore delle cinque persone che li interpretano. Li ho lasciati sfrenare nella estemporaneità e istintività della recitazione, e non hanno dato al film altro che regali.
L’improvvisazione è quella folata di vento che entra dalla porta lasciata aperta come suggerisce Jean Renoir, ma se non hai fatto prima un lavoro pignolo e meticoloso, spesso resta velleitarismo.
Allora bisogna lavorare tanto, tempi di dialogo provati e riprovati, cronometraggio dei movimenti, segni delle posizioni per terra, fermati lì che sei controluce e hai il viso sottotono, (una battuta detta con il viso sottotono diviene proprio un’altra se detta tutta illuminata). Penso che l’improvvisazione vada accolta a braccia spalancate con la tecnica.
Credo che la cosiddetta “direzione degli attori” sia un concetto proprio da rovesciare, bisogna tentare di avere la lucidità e la spregiudicatezza di farsi “dirigere dagli attori”. Per chi non fa un cinema di situazioni, ma tenta di farne uno di personaggi, è proprio la profonda emulsione fra la carta della sceneggiatura e l’attore come persona che determina non solo la riuscita del ruolo, ma proprio dell’intero film.
Alessandro, Valeria, Luigi, Rocco e Micaela. Diversissimi fra loro, per stile interpretativo e provenienza, teatro, fotoromanzi, musica, cinema-cinema, dall’alto e dal basso, come denominatore un talento e una generosità eccezionali. Cinque articoli di un catalogo di esseri umani, di Tipi Psicologici. Con Alessandro il costumista abbiamo cambiato molti vestiti durante le prove, per azzeccare il segno esteriore che somigliasse a quello interiore. Non facile: avevamo una cartuccia da spararci, un costume solo senza cambio, la storia è tutta in una notte.
Considero ogni vanità registica una colpa, ma grande quanto la sciatteria. Con la cura della messinscena, l’oculata scelta dell’obiettivo, del fuoco, dei movimenti di carrello e panoramica, io voglio solo sprigionare calore dall’immagine, ma la mia mano deve essere invisibile. Altrimenti me la taglio. Al montaggio. Con Esmeralda, la montatrice, abbiamo scelto, ridato i tempi, costruito, riempito e svuotato, come due ricamatrici dedicate al pizzo a tombolo.
Mi fermo qui. Ma le note di una regia sincera dovrebbero comprendere anche altri imprescindibili
collaboratori del lungo lavoro sartoriale di rifinitura, Guerrino alla stampa, Francesco al mix, Marta al montaggio del suono, Daniele ai rumori, i treni, il mare, le voci, il momento meraviglioso in cui arriva la musica di Bat, ecco, un film è un lungo processo artigianale, ma come fabbricassimo birra, non vino, che si affina in barrique da solo al buio. La birra deve essere calata nel boccale e gorgogliare per finire il suo processo di fermentazione. E il boccale è la sala.
Francesca Archibugi