Note di regia de "L'Uomo Pietra"
Dopo sette anni passati a girare documentari, ho pensato fosse giunto il momento di ripercorrere ironicamente i limiti e le contraddizioni di quest’esperienza. L’occasione si è presentata quando un gruppo di urbanisti e sociologi di Modica, mia città d’origine, mi ha dato carta bianca per realizzare un piccolo film ambientato nella parte alta della città, affiancando il loro progetto di rigenerazione urbana di un’area da molti anni lasciata in uno stato di semi-abbandono.
Così è nato L’Uomo Pietra. L’idea è stata subito quella di accantonare il documentario tradizionale e realizzare un prodotto ibrido, che somigliasse il meno possibile a un film su Modica Alta, quanto piuttosto a un intervento nel quartiere. Un’operazione che coinvolgesse gli abitanti e creasse delle occasioni di incontro/scontro con loro, una sorta di laboratorio chimico, in cui gli elementi da far interagire fossero la realtà (il quartiere, i suoi spazi, la sua luce, i suoi abitanti) e la finzione (la scrittura, la recitazione, la messa in scena).
Quest’idea si è concretizzata nella scelta di scrivere il film in progress, giorno dopo giorno, partendo da un semplice canovaccio e puntando sull’interazione tra attori professionisti e persone del luogo. È il caso della “coppia” Rubettini/Caprotta, il primo impersonato dall’attore veneziano Ugo Piva, il secondo da un abitante del quartiere alla sua prima esperienza, Lorenzo Sammito. Il personaggio immaginario di Rubettini è stato così calato nella comunità di Modica Alta e chiamato a stimolare le reazioni di alcuni interlocutori reali, i quali a loro volta condizionavano il lavoro del nostro attore protagonista, chiamato spesso a improvvisare e a creare nuovi stimoli. In questo modo ho cercato di intensificare – e in parte esasperare – il continuo scambio tra realtà documentata e finzione, con l’obiettivo di confonderle l’una nell’altra.
Ne L’Uomo Pietra convergono e si intrecciano argomenti diversi. Oltre a essere un’affettuosa presa in giro del «cinema del reale», nasce dal desiderio di affrontare, in modo ironico e volutamente sopra le righe, il tema della rappresentazione che una comunità fa di se stessa e il rapporto amore-odio che può instaurarsi tra i natii di un luogo e i loro visitatori stranieri. Fin dall’inizio ho immaginato che Modica Alta fosse una cornice al tempo stesso reale e simbolica, allegoria politica di un Italia dolce e violenta insieme, frammentaria e sfuggente, così com’è la «realtà» che Edoardo Rubettini cerca disperatamente di inseguire e afferrare, condannandosi però a un delirio tragicomico.
Luca Scivoletto