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CINEMA DU REEL 37 - Intervista a Giovanni Cioni: "Dal Ritorno"


Una lettera del regista al protagonista Silvano Lippi: da quel momento è nato il documentario, un viaggio nel ricordo e nella memoria.


CINEMA DU REEL 37 - Intervista a Giovanni Cioni:
Mauthausen in "Dal Ritorno"
Silvano Lippi era un soldato italiano in Grecia, nel 1943. Prigioniero dei Tedeschi, deportato a Mauthausen dove fu addetto ai forni crematori, Sonderkommando. Un viaggio nel ricordo personale e collettivo quello intrapreso da Giovanni Cioni in "Dal Ritorno".
Ce lo racconta l'autore.

Come hai incontrato e conosciuto Silvano Lippi, il protagonista di "Dal Ritorno"?
Giovanni Cioni: In realtà è stato Silvano a chiamarmi, tramite un professore di scuola di mio figlio che conosceva il mio lavoro. E questo è il punto di partenza. Perché Silvano mi ha chiesto di fare un film, di accompagnarlo laggiù dove, come dice lui, la sua esistenza era rimasta. Ormai lui aveva già raccontato tutto, dopo 60 anni di silenzio: aveva pubblicato un libro sulla sua deportazione, era stato a "Chi l'ha Visto" su RAI3, andava nelle scuole, era invitato a fare conferenze. Ho il sentimento che raccontare la sua storia tremenda di sopravvissuto non bastasse più a farlo sentire meno solo, non che lo fosse veramente, aveva famiglia, amici. Si tratta della solitudine di chi ha visto morire tutti quelli che erano con lui, e che sta sempre con loro, come se lo chiamassero.

Come è stato intraprendere il viaggio nella "memoria" di Lippi?
Giovanni Cioni: Proprio da questa domanda dovevo partire. Lui mi disse che non c'era nessuno che si ricordava di lui, erano tutti morti. Io dissi a Silvano che non bastava raccontare la sua storia, ma che bisognava parlare anche di questo, della solitudine dopo, ma anche della vita, del tentativo di vivere, una vita normale, dove essere felice. Una vita che attraversi come incredulo. Dovevo partire da questa domanda per interrogare il senso stesso del fatto di raccontare, testimoniare. Spesso ci si ferma alla testimonianza e per me non basta - e per intraprendere il viaggio dovevo dimenticare quello che credevo di sapere sulla deportazione, e partire da un uomo che incontro oggi, e che mi racconta, e lo racconta come se fosse appena successo, anzi lo racconta rivivendolo. Gli ho scritto una lettera, una lettera vera che gli ho mandato per posta, e il film ha preso forma a partire da questa lettera, perchè "Dal Ritorno" doveva essere una lettera che gli rivolgo, che gli mando.

Fin dove ti sei spinto nell'intimo del personaggio?
Giovanni Cioni :Certo, il film interroga l'intimità del vissuto, ma non si trattava per me di spingermi a svelare dettagli dell'intimità di Silvano, non era questo il punto. Nel film ci sono estratti di film di famiglia che Silvano fece: una vacanza in Grecia (dov'era iniziata la sua deportazione), immagini di sua figlia bambina, ma le utilizzo più per parlare di uno sguardo - lo sguardo incredulo di chi é sopravissuto, che guarda la sua esistenza, quasi da fuori. Importa lo sguardo, non gli aneddoti intimi. Ma è anche vero che nel rapporto di intimità che si era creato tra di noi, nella fiducia reciproca, potevo osare delle domande che possono sembrare brutali. Bisogna osare chiedere a un sopravvissuto se lui non abbia mai avuto dubbi - perchè l'incredulità dei propri genitori di fronte al suo racconto al ritorno dei campi, lo ha condotto a rasentare la follia, ed uno può giungere fino a mettere in dubbio quello che sa di avere vissuto. Non si trattava di mettere in dubbio quel che racconta: si tratta di interrogare come uno possa reagire, e direi sopravvivere, al sentimento di incredulità degli altri, ed è una solitudine terribile, quella che Silvano ha vissuto.

Come è stato il "tuo" viaggio a Mauthausen ed il "tuo ritorno" alla luce del rapporto che si era creato con Lippi?
Giovanni Cioni: Inizialmente dovevo accompagnare Silvano, andarci con lui, era l'impegno preso. Ma un film del genere - e dico che è anche la sua ricchezza, nella sua esperienza - si scrive con gli imprevisti dell'esistenza. Silvano ha avuto un primo attacco cerebrale al momento di iniziare il film. Si è ristabilito ed abbiamo cominciato a girare, prima in ospedale e poi a casa sua. Abbiamo iniziato il racconto della sua deportazione, della sopravvivenza, del suo ritorno, della sua esistenza. Aspettavamo che si ristabilisse meglio per potere partire insieme. L'idea comunque era di andarci come in un sopralluogo, dopo il racconto, a cercare di immaginare quello che aveva raccontato nei luoghi. Non volevo immagini dei luoghi con lui che racconta o con la sua voce fuori campo. Volevo il luogo, nel silenzio, muto, e capire cosa si poteva immaginare. In un certo senso sono andato a Mauthausen come se facessi una soggettiva del ritorno di Silvano. Come per immaginarmi quello che poteva vedere.

Per concludere, come è stato lavorare su un singlo personaggio ed una singola storia, vista la coralità delle tue precedenti opere?
Giovanni Cioni: Certo, era una sfida, ma non fai questo mestiere se non accetti di metterti in gioco ogni volta, e di andare oltre quello che credi di sapere fare. Devi accettare la sfida e lavorarci al meglio, fino in fondo. Detto questo, la coralità è una sfida, perchè devi fare vivere ognuna delle voci nella polifonia delle storie. Qui, con Silvano, era un'altra forma di polifonia, dove fare coesistere il presente e il passato, il luogo dove sto, con lui, e i luoghi laggiù dove è rimasto, l'ospedale, la casa e il campo. Era una scelta tanto più radicale che per le sue condizioni di salute Silvano era fermo, seduto alla finestra - e da questa finestra il film compie un viaggio attraverso la sua esistenza. E per me è come se il film lo mando a lui e lui fosse sempre là, a questa finestra.

28/03/2015, 09:10

Simone Pinchiorri