SEEYOUSOUND 1 - I cortometraggi di 7 Inch, prima sessione
Con la prima serie di documentari, la sezione 7-Inch (cortometraggi) del festiva
SeeYouSound mette subito a nudo il carattere eterogeneo della selezione.
Fantastico. Il mondo di
Janvier è il nostro che entra in cortocircuito e si mette a ruotare in altre – incredibili – direzioni. Nelle sue peregrinazioni Janvier diventa una spugna sonora, cattura ogni occasione di suono o rumore, in città come in mezzo alla natura, e li attraversa come fossero un’orchestra che suona solo per lui (immaginando arrangiamenti e combinazioni).
Quando rientra in casa (laboratorio improvvisato dove ogni cosa vecchia e abbandonata si trasforma e riprende vita) crea eventi sonori estemporanei (“la mia tempesta” li chiama) che non conserva perché non c’è valore nella ripetizione dell’attimo fuggente.
Janvier è solo (“mi è difficile camminare tra la gente perché non riesco ad orchestrare tutti questi suoni”) ma c’è chi tocca i suoi sentimenti e, nella personale incapacità di comunicare, trova un mezzo per dimostrare a quel qualcuno che esiste.
C’è molto brio e tanto entusiasmo nelle dichiarazioni che Tommaso Sacconi, regista di
Lite Feet/Starting Point, raccoglie nella metropolitana di New York intervistando e riprendendo i ragazzi che fanno Lite Feet, movimento underground che unisce acrobazie, pole dance, numeri di giocoleria e battaglie a passi di danza.
Assistiamo a performance in metropolitana dove i “team”, ciascuno di due o tre ballerini, eseguono tra una fermata e l’altra numeri di vera acrobazia.
Non è il lavoro della vita, ripetono, ma può essere un punto da cui partire (“starting point”) e, soprattutto, consente loro di non perdersi in direzioni più pericolose guadagnando anche qualcosa. Il team è una famiglia, la metro un palcoscenico, i passeggeri il pubblico, la leggerezza presa con serietà un comandamento.
In
N’Euro si parla di un gruppo musicale cresciuto sotto la stella della follia. Ci sono interviste e spiegazioni su com’è nato, su cosa si regge, ma per capire i N’Euro non è il significato delle parole che è importante, ma l’interazione dei protagonisti.
In linea con lo spirito dell’associazione torinese dove si sono conosciuti (Associazione Arcobaleno Onlus di Torino formatasi “per restituire cittadinanza alla follia e rompere il pregiudizio verso chi soffre di disagio mentale”) i componenti del gruppo parlano di normalità della follia, di punti di vista, e dimostrano quanto tutto ciò sia vero.
Sinuoso, mutevole e sfuggente, istintivo, circolare,
Racey Lee non può essere racchiuso in una serie di aggettivi né in una formula, Racey Lee va esperito per capirne la portata (sperimentale ed emozionale). Artista tout court (pittore, scultore, sassofonista, scrittore, video artista), Ryan Spring Dooley tenta di dare un senso visivo all’estemporaneità della musica jazz, imbastendo un breve film d’animazione sul quale improvvisa la colonna sonora e successivamente il testo narrativo.
Il risultato è un’opera unica, simbiotica nelle sue parti, dove le immagini solo a tratti diventano narrative, più spesso sono suggestioni alle quali le parole e i suoni si ispirano. La musica è anche al centro dell’esistenza di Racey Lee, anima tormentata che idealizza la musica come soluzione alla sua perdizione, ma proprio per questo non la raggiunge mai.
Al termine della visione/ascolto restano impresse molte immagini che nel flusso continuo ci colpiscono (tratti in bianco e nero con sprazzi di colore), e il senso di stanca rasseganzione che anche il tono della voce narrante (Ryan Spring Dooley stesso) suggerisce.
Almost Chet è atmosfera: in una luce calda virata color caramello s’inquadra una stanza d’albergo. Un uomo con una tromba in mano si distende sul letto. Una donna entra in stanza ma forse è un ricordo, un sogno, un desiderio. Note di pianoforte.
Una voce dai toni radiofonici racconta in prima persona il “concerto dell’oblio”, la narrazione della propria morte: lui è il più grande trombettista di cool jazz di tutti i tempi, Chet Baker (o “quasi” Chet, perché in tanti si possono riconoscere nell’aspirazione di chi narra, nel suo vagheggiare e nel suo trovarsi, nella fiducia in una rinascita dopo la perdizione), e la sua parabola si chiude, dando un senso a ciò che non ne ha, con queste evocative parole: “E allora smisi di ronzare, aprii le ali e mi finsi una fenice”.
Il progetto di
Trento Symphonia si inserisce nel percorso che i Flatform (gruppo di artisti nato nel 2006) portano avanti da anni tra novità e sperimentazione, sempre in cerca di una dimensione filosofica e contemplativa.
Banalmente si tratta delle riprese di un’orchestra che esegue la Sinfonia n. 8 di Gustav Mahler tra le montagne sul far del tramonto. Ma in realtà non c’è nulla di banale e la visione non è quello che ci si aspetta: gli orchestrali, disposti secondo un disegno preciso, dopo poco iniziano a muoversi seguendo una coreografia prestabilita; li precedono i loro “leggii umani” che, oltre a consentire il suono dirigono il percorso. Dopo poco gruppi di musicisti iniziano a scomparire portandosi nel silenzio i loro suoni, mentre il sole cala e lascia spazio al buio.
Non c’è arbitrarietà e libertà nell’esecuzione (nella vita?) come non c’è arbitrarietà nella parabola che il sole segue ogni giorno, inevitabilmente.
15/05/2015, 18:00
Sara Galignano