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FESTA CINEMA ROMA - Daniele Vicari e il cast


Il regista mette in scena "Uno, Nessuno" in cui si interroga sul confine tra attore e personaggio con la "Scuola Gian Maria Volontè". INTERVISTA


FESTA CINEMA ROMA - Daniele Vicari e il cast
Daniele Vicari
A distanza di tre anni dal successo di "Diaz", Daniele Vicari torna sul grande schermo con un progetto cinematografico unico nel suo genere. Sfruttando gli elementi tipici del mockumentary, in "Uno, Nessuno" il regista esplora la sottile linea che divide il personaggio dall'attore, affidandosi completamente agli allievi della "Scuola d'arte cinematografica Gian Maria Volontè". In occasione della decima Festa del cinema di Roma, abbiamo intervistato Vicari e quattro attori del cast, Riccardo Zonca, Alessandro Bertoncini, Chiara Scalise e Miriam Annì Karlkvist Calafiore.

Il corso chiedeva ai ragazzi di mettersi in gioco, ma in realtà lo hai fatto anche tu. Dopo il documentario, il cinema di finzione e il web ti sei provato in un nuovo genere, il mockumentary. Come ti è venuta l'idea di impostare il progetto cinematografico su questa linea?
Vicari - In realtà non è progettuale. Con Paolo Giovannucci e Imogen Kusch abbiamo pensato lo stage come un momento di scavo sul mestiere dell'attore e lo scopo principale era di lavorare sul limite e il suo superamento. Non avevamo una struttura drammaturgica precisa, abbiamo utilizzato vari materiali anche un'opera teatrale e delle lettuare, qualcosa di molto eterogeneo. Questa forma che ha preso il film viene fuori dai vari livelli di coinvolgimento ed espressivi messi in campo durante il laboratorio. Per quanto riguarda me, era fondamentale tenere insieme tutti questi livelli e ho pensato che la formula giusta fosse il mockumentary perchè porta connaturato in se la questione del limite tra realtà e finzione, mettendola in scena. Ci permettava di tenere dentro tutti i livelli di esperienza che i ragazzi stavano maturando nel laboratorio. La cosa veramente dirompente è stato affrontare le improvvisazioni non partendo da scene esistenti, ma da materiali forniti da loro, così che potessero raggiungere un livello di esperienza individuale importate. E' stata una cosa molto bella da vedere, perchè hanno imparato molto di più di quanto non pensano.

E in realtà parlare di mock è forse limitativo, perchè anche voi attori in scena siete stati in bilico tra i vari livelli di finzione. Come si vive un processo del genere?
Zonca - Ho vissuto dei momenti di grande crisi nelle settimane di improvvisazione precedenti al film, perchè per poter dare vita a qualcosa lontano da te ti domandi quanto devi mettere in gioco di te e soprattutto quanto è pericoloso. Certe esperienze sono state davvero forti, perchè questi personaggi li abbiamo ideati noi. Nel film era previsto che io e Alessandro fossimo fratelli e nel momento in cui abbiamo scritto le nostre "biografie", ci siamo accorti che, senza accorgercene, avevamo tradotto noi stessi in una cosa diversa.
Bertoncini - Abbiamo messo in scena un altro lato di noi stessi, ma ce ne siamo accorti solo dopo, nel momento in cui lo stavamo facendo. Quello che avete visto sullo schermo è il prodotto di un lavoro intenso, una concentrazione di improvvisazione che è stata lunghissima.

"Uno, Nessuno", ma questa volta mancano i Centomila. Più che sulla moltiplicazione dell'io sembri più interessato all'annullamento di esso. E' così?
Vicari - Il titolo l'ho dato io fin da subito per identificare il corso e ho pensato a "Uno, Nessuno" perchè secondo me il lavoro dell'attore è molto ben individuato da questo titolo pirandelliano. Il fatto di essere sulla scena e rappresentare Amleto apparentemente consiste nell'annullare te stesso, perchè devi diventare Amleto, però come diceva Diderot è proprio questo il paradosso dell'attore, sei te stesso ma non lo sei. Quindi ciascun attore affronta dentro se stesso questo nodo, mettendo in gioco il proprio corpo e la propria anima. Però poi quando si parla di un film, non è un caso che la gente lo ricordi come "il film di" e citi il protagonista e non il regista, perchè gli attori hanno questa condanna, di dare vita ai personaggi.

E questa è più una condanna per gli attori o per il regista che non viene citato?
Vicari - Dipende da chi è il regista!

Alcuni esercizi vi hanno costretti a interrogarvi sul concetto di spazio, recitando su un foglio di carta o camminando su una striscia che demarca due differenti mondi. Che idea ti sei fatta dello spazio nell'arte?
Scalise - E' un concetto particolare perchè lo spazio cambia in base al senso che gli attribuisci. Noi abbiamo lavorato in uno spazio in cui abbiamo fatto cose molto diverse nel corso di due anni. Quella famosa linea di demarcazione mi ha aperto un mondo, perchè sorpassandola e tornando indietro avevo davvero la sensazione di attraversare un'altra dimensione, senza voler per forza parlare di metafisica. Anche l'esercizio del foglio bianco, che personalmente non ho fatto, sono convinta che ti aiuti a raggiungere punti che magari in uno spazio libero non riusciresti a raggiungere perchè sei costretto ad indagare qualcosa.

La tua regia procede molto per sottrazione e, rimanendo sul tema dello spazio torna alla memoria "Dogville" di Lars von Trier. In questo gioco anche la musica è un elemento che aiuta a raccontare senza mai esplodere o disturbare. La colonna sonora è affidata ad uno dei più grandi musicisti italiani, Stefano Di Battista. Da cosa nasce la vostra collaborazione e soprattutto cosa pensavi che il jazz potesse restituirti rispetto ad altri generi?
Vicari - La collaborazione con Stefano è nata assolutamente per caso perchè ero andato a vedere un suo concerto all'Auditorium di Roma e all'uscita abbiamo iniziato a parlare appassionandoci a vicenda. Ad un certo punto mi ha detto che non aveva mai composto musica per un film e allora gli dissi che in quei giorni stavamo realizzando il laboratorio, che ci stavamo per buttare in un'esperienza assurda e che se avesse avuto voglia di farsi male insieme a noi saremmo stati ben contenti. E' stato molto bello, lui ha seguito molto il progetto e poi per la musica ha improvvisato, adottando lo stesso metodo del film stesso. Il jazz è anarchico, è difficile da ingabbiare e funziona esattamente come la recitazione. E' un'improvvisazione strutturata, predisponi delle serie musicali codificate e poi puoi andare dovunque, sapendo sempre dove mettere i piedi.

Il concetto attorno al quale sembra ruotare il film è quello di "sfida". Quale è stata la più emozionante e allo stesso tempo complessa?
Karlkvist - E' curioso che parli di sfida perchè mi ricordo benissimo quale fosse il mio obiettivo prima di iniziare questo stage, sfidarmi. La più grande è stata lavorare sulla fiducia, non porsi dei limiti. E' stato bello scoprire che sul limite ci puoi camminare e osservare come riuscire a stare in un luogo limitato o in un luogo imposto. Rendere sicuro un luogo, conoscere un limite e renderlo sicuro.

19/10/2015, 16:43

Antonio Capellupo