Note di regia de "L'Eta' dell'Oro"
In questo film ho cercato ancora una volta di raccontare una persona che non c’è più. Come per Simone Weil, e seguendo un tipico modo di fare della filosofa francese innamorata dell’Italia, il filo conduttore della regia è lasciare che le cose accadano. Organizzare un tempo, uno spazio e un racconto che non siano vincoli per gli attori e la rappresentazione ma il contrario: apertura, volo, attesa. Se l’estetica di SW era fondata su Giotto, in L’età d’oro ho voluto confrontarmi con l’estetica della caméra stilo di Alexandre Astruc rivisitata dall’underground degli anni settanta. Per questo la macchina da presa lavora su due registri: quello diegetico che racconta il qui ed ora, utilizza una camera rigorosamente fissa, inamovibile. La cosa non è stata facile per gli attori e neppure per la troupe, men che meno per il montatore. Ma alla fine la sfida si è compiuta, i corpi e le luci e le cose passano con un loro interno movimento, forse rivelatore. La mdp attende, non osa addentrarsi. Il secondo registro, extradiegetico, sotto forma di filmini super otto di 30 anni fa, si confronta con un linguaggio che all’epoca era stato anticipatore del contemporaneo linguaggio autoriale da Dogma ad arthouse. La mdp qui è mobile, abbraccia i personaggi e danza con loro, il pedinamento zavattiniano è il loro unico referente perché all’epoca non vi era altro, almeno per l’underground italiano. Infine un terzo registro è dato dalla scelta del montaggio. Frammentario anche se all’interno delle singole sequenze realistico, come a cercare anche qui di ricomporre un puzzle cui l’opera aperta degli artisti di quegli anni si era continuamente ispirato. Un puzzle che è più un vuoto che un pieno, un’assenza di opere paradossale nella loro proliferazione di piccoli filmini di famiglia, sperimentali, interrotti, in un dialogo con l’avanguardia degli anni venti e il surrealismo forse ancora più stretto che con il neorealismo. O comunque un’aspirazione più che un testamento. In ogni caso le morti di quegli artisti sono state spesso vere e proprie operazioni di censura, o di autocensura. Ho conosciuto personalmente Annabella Miscuglio, ho vissuto con lei e suo figlio Piero, sono stata vicino con venti anni di meno a quello che tuttora mi sembra uno di quei risvolti oscuri della Storia. Mi identifico in loro quel tanto che basta a sentire il bisogno di ricostruzione, di ricordo, giusto per ricordare innanzitutto a me stessa che anche quello è stato un germe di quello che siamo diventati o che diventeremo.
Avevamo messo musiche di repertorio in un primo tempo. Poi il Maestro Piersanti complice il compianto editore Piero Colasanti ha voluto assecondare la mia scelta in punta di piedi creando una colonna sonora che «sta» come la regia in sospensione, affacciata ad un balcone senza balaustra che è quello degli enigmi non risolti di cui si aspetta anche solo un sospiro di rivelazione. Anche i costumi, in particolare il vestito di Arabella disegnato da Lia Morandini, tendono ad entrare nel fondo più che ad uscirne. Perché Arabella è un’apparizione oltre ad essere già un’interpretazione. E abbiamo pensato che sarebbe stata più forte se sempre in procinto si sparire, confondersi con la materia e la luce, generata dalla luce. Infine la scenografia e la luce: l’idea di fondo era che si dovesse lavorare con il buio, il buio del ricordo, della rimozione, della censura. Sid, il figlio, compone un percorso nel film tutto in discesa, dall’alba alla notte fonda, perché ritrovando sua madre ritrova se stesso. Abbiamo allora lavorato su ambienti quasi teatrali, dove le pareti dovevano essere risucchiate dall’ombra, ma i punti luce sono in ogni scena rigorosamente «in scena» e non abbiamo usato quasi luci da set, se non a rinforzo di quelle artificiali naturali. La sala cinematografica al contrario qui è all’aperto, e i film visti in piena luce. Una scelta radicale, perché se il cinema è ricordo, analisi, notte, il cinéma come vita, il cinéma come sogno di un’intera generazione, il cinéma come etica e cultura deve essere un cinéma solare, capace di ascoltare gli abissi e restituirci l’orizzonte.
Emanuela Piovano