Note di regia de "Il Resto con i miei Occhi"
Il 10 febbraio dello scorso anno, l’attore e regista Manrico Gammarota si è tolto la vita con un gesto estremo. Una notizia dolorosa che ha sconvolto amici e colleghi. Nonostante i precedenti, la lista degli artisti suicidi è fin troppo lunga, quando succedono certe cose lo sgomento è sempre molto forte. Tutto mi sarei aspettato da lui tranne che questo epilogo violento. Manrico aveva una decina di anni più di me, era un uomo maturo e tranquillo, ai miei occhi uno degli attori più equilibrati che io abbia mai conosciuto. Dovevamo fare un film insieme, avevo scritto il ruolo del protagonista su misura per lui. Manrico era molto stimato nell’ambiente e da poco era anche stato nominato direttore artistico del teatro Curci di Barletta, sua città natale. Manrico aveva vinto premi e lavorato con registi affermati, ero pertanto lusingato del suo interesse nei miei progetti, e lieto di offrirgli l’opportunità di interpretare un ruolo primario adeguato alle sue caratteristiche. Infatti, il protagonista della mia storia era un attore, non famosissimo ma di talento, un po’ come lo era lui. Un piccolo film di genere Noir ambientato a Rotterdam, una metafora per dire che vita non è tanto quella che hai vissuto, ma quella che ricordi. Pochi giorni prima del suo suicidio Manrico mi aveva chiamato per ribadire e confermare il suo interesse a interpretare il ruolo principale. Una telefonata un po’ strana perché per me era scontato che fosse lui il protagonista, se avessi trovato le risorse necessarie. Strana perché preceduta da un lungo silenzio, a cui non avevo dato importanza, visti i suoi molteplici impegni teatrali. La mattina del 10 febbraio gli inviai un messaggio per informarlo che la nostra pratica, partipavamo al bando del Nuovo I.M.A.I.E. proprio per garantire una retribuzione di base agli attori, si era sbloccata, e a parte qualche ritardo avevamo i requisiti per ottenere il finanziamento. Non so se lui abbia letto quel messaggio, ma ho avuto la terribile sensazione che il suo gesto estremo avesse qualcosa a che vedere anche con il nostro film. Non mi riferisco alla coincidenza temporale del messaggio, l’ho conservato nel mio cellulare, ma al soggetto del film, che seppur in maniera simbolica descriveva l’epilogo esistenziale di un uomo, di un attore che entra nel circolo vizioso di un’ossessione: quella di pensare alla sua vita come se questa fosse il copione di un film, di cui lui è interprete e autore.
Una volta ricevuta la triste notizia, decisi d’interrompere la preparazione. Avvertii tutto il cast che non me la sentivo di continuare. Una decisione emotiva certo, ma non solo dettata dal dolore. Ero anche molto arrabbiato e non capivo bene il perché. Avevo lavorato duro per molti mesi e tutto quello che avevo fatto veniva distrutto in un sol colpo, ma non era questo il motivo nel mio malessere. Mi sentivo come se quel gesto estremo mi avesse investito di qualche responsabilità. È facile sentirsi in colpa quando succedono certe cose, e dire a sé stessi come hai fatto a non accorgerti di nulla? Manrico era solo un collega, non un amico che frequenti tutti i giorni, perché colpevolizzarsi di qualcosa che non puoi sapere? Del resto il mio rapporto con gli attori è generalmente limitato a questioni lavorative, non frequento molto l’ambiente, non entro nella sfera del privato. Se avessi saputo della sua depressione, non intendo la malattia perché non sono uno psichiatra, ma di un disagio esistenziale così forte, non gli avrei proposto quel ruolo, di questo sono certo. Parlando con altri colleghi sono venuto a conoscenza di fatti a me ignoti, e che Manrico aveva confessato già molti anni fa il suo desiderio, se così possiamo chiamarlo, di farla finita. Nel 2007 aveva diretto e interpretato un cortometraggio dal titolo premonitore “Facciamola finita”, una commedia drammatica che finisce con un salto nel vuoto del protagonista. Sarebbe stato facile accontentarmi di queste evidenze, sostituire il protagonista e proseguire la mia strada. Una parte di me però si ribellava, mi spingeva altrove. Non solo non era così facile sostituire il protagonista, visto che avevo concepito quel film pensando a Manrico per il ruolo primario, ma qualcosa mi diceva di non insistere e di passare ad altro. Come portare avanti un progetto cinematografico partendo da un’energia così negativa? Due mesi dopo il tragico evento ricevetti la comunicazione dal Nuovo I.M.A.I.E. che la mia domanda era stata accettata, contributi per pagare gli attori. Informai il cast di questa novità aggiungendo che non sapevo come comportami. Mi era passata la voglia di fare quel film, ma non volevo penalizzare nessuno. Un dilemma, perché qualsiasi decisione avessi preso avrebbe avuto delle conseguenze per nulla banali. Dopo aver parlato con tutti i miei interlocutori è nata l’esigenza di riscrivere l’intera sceneggiatura tenendo presente quella sottile distanza che c’è tra reale e finzione, ma anche di salvare parte dei contenuti del soggetto originario. In un’epoca in cui prevale il linguaggio della persuasione mi è sembrato interessante seguire l’emozione e risolvere questo lutto, questo impulso alla morte (Tanathos) raccontando una breve storia d’amore (Eros). IL RESTO CON I MIEI OCCHI è la conseguenza di alcuni eventi reali ma anche la leggittima reazione a una perdita, a un dolore, che mi è sembrato più interessante da descrivere e raccontare rispetto al soggetto originario. Questo cambio di direzione mi è costato molto in termini personali e pratici. Mi sono anche separato dopo le riprese del film, subendo un’altra perdita ben più dolorosa.
Non ho nessuna aspettativa da questo film, solo uscirne con le ossa non troppo rotte, ma ho anche un grande desiderio, che i delegati dei festival a cui invierò copia del film lo guardino attentamente. Perché il film ha diversi piani di lettura, e la performance della protagonista non può passare inosservata, sarebbe un vero peccato. È già successo che i protagonisti dei miei lavori di cinema e teatro abbiano ottenuto dei premi, e questo mi ha reso sempre molto felice. Non mi dispiace affatto aiutare gli attori nel loro percorso, ma in questo caso è diverso, la performance attoriale è buona parte del film.
Dopo la premessa entro nel merito dei contenuti; questo film chiude la mia trilogia, tre lungometraggi del tutto autonomi legati tra loro da un filo conduttore, il sentimento come origine profonda delle azioni umane. Sì, perché molte delle nostre azioni o comportamenti non partono da un sentimento profondo, ma da altri fattori. Interessante notare che spesso l’essere umano agisce non tanto quello che sente, ma ciò che è meno sconveniente. Il sentimento è importante per tutti noi, ma la cultura e l’educazione, il contesto sociale e altri fattori possono facilmente sottometterlo. Sento, penso e agisco è il triangolo sui cui si basa l’azione umana, solo i folli agiscono un sentimento senza pensare, appunto seguendo l’impulso senza mediazione. Anche un amore improvviso può essere un gesto folle, ma non per questo sbagliato. Così la decisione di togliersi la vita può essere un impulso incontenibile, o un atto molto ben premeditato.
In passato sono stato criticato, penso ingiustamente, per il fatto che i miei film sono in qualche modo troppo personali. In verità le tre storie che ho scritto, i tre lungometraggi che ho diretto e prodotto, sono film di finzione. Nessuno dei tre episodi della trilogia si può dire sia la riproduzione di eventi realmente accaduti. Mi sono sempre limitato a descrivere lo scenario emotivo, un tentativo d’ispirazione poetica quindi. Con una certa tenacia ho prodotto film d’autore semplicemente anticipando la realtà del nostro periodo storico, in cui privato e pubblico sono meno scindibili che in passato per via di un mondo fin troppo interconnesso, che documenta la vita quotidiana di persone comuni come se fosse il copione di un film da editare. Comprendo bene che l’attualità spinge molti autori a fare film su questioni urgenti e ben più importanti: all’ondata di migranti, le difficoltà economiche in cui versa molta popolazione, la guerra e il terrorismo. Temi che riempiono le pagine dei giornali e che scrittori e registi ci hanno già raccontato. A me è sempre interessato descrivere la condizione umana sul piano della percezione. Indagare la sfera dell’intimo in chiave universale, perché a prescindere da tutto la vita rimane un viaggio fatto di incontri, incidenti e destini.
Max Amato